L’ottava puntata del nostro viaggio nelle Dolomiti bellunesi ci porta nella Canale d’Agordo ad imboccare la Via degli ospizi: un cammino per viandanti nelle Alpi. Anzi una scorciatoia per chi andava verso nord con non poche insidie, ieri come oggi…
Qui puoi ascoltare la puntata del podcast con il racconto di Marco
Alpi e Appennini: cammino vs alte vie
Tra le varie cose che differenziano le Alpi dall’Appennino c’è l’idea del cammino. Nata come viaggio spirituale, storico, di rinnovamento, piuttosto che come percorso tecnico di attraversamento, il cammino sembra presentarsi come una versione per certi versi più matura, rispetto alle “Alte Vie” classiche di montagna, o ai percorsi di più giorni. Più matura nel senso che fa a meno di cose che per l’altra sono abbastanza indispensabili: una su tutte la questione tecnica.
Se è certo che per le escursioni classiche, il grado di difficoltà del tracciato è un dato imprescindibile (al quale consegue una preparazione escursionistica, normale, da esperti, da esperti attrezzati, o addirittura alpinistica), per il cammino questo sembra non essere un problema. Complici i territori, più dolci, in cui si svolge in prevalenza questa pratica: gli Appennini appunto. Niente caschetti, cordicine, dispositivi sportivi vari. Il cammino è tendenzialmente anarchico. Pure nella rotta da seguire c’è una certa libertà di movimento. Gli orizzonti sono più vasti nell’Appennino.
Ed è più maturo anche nel senso che è più inclusivo. Se chiunque potrebbe intraprendere un cammino, determinando le tappe che più gli si addicono, nelle Alte Vie bisogna passare, entro una certa ora un determinato valico, o raggiungere un tal rifugio. Ci sono più filtri. Ed è saggio pensarci almeno due volte prima di cimentarsi.
(A tal proposito mi piace ricordare il passaggio obbligato lungo la parete Sud delle Stornade – probabilmente “monte intorno al quale si gira” – Monti del Sole, Dolomiti Bellunesi, ribattezzato “Filtro” da Franco Miotto, perché solo chi supera quel punto allora può considerarsi ragionevolmente all’altezza delle difficoltà che seguiranno).
Un percorso più semplice ha il pregio di consentire maggiori occasioni di contemplazione (molte volte addirittura senza interrompere il passo), l’ascolto della fauna, lo studio della natura, il misticismo e anche il delirio. Laddove a volte in itinerari complicati, l’attesa del passaggio-chiave, il punto difficile, a volte tiranneggia e obbliga e occupa tutti i pensieri: seleziona e semplifica, anche l’animo umano. San Francesco e Dino Campana abitarono in Casentino. Tita Piaz e Cassin nelle Alpi.
Uscito di casa all’improvviso, senza premeditazione, nell’Appennino raramente mi è mancato qualcosa. A Belluno, nelle Dolomiti, devo ponderare, e ponderare. A volte l’equipaggiamento, la preparazione atletica, l’allenamento, rischiano di annientare il lato immateriale del viaggio.
Detto ciò, chi scrive trova, al momento, più soddisfazione nelle intransigenti condizioni alpine, piuttosto che nel favore luminoso dei percorsi appenninici. E, inoltre, ancor prima, tutto il discorso fatto fin ora è talmente pieno zeppo di eccezioni che potrebbe essere sbriciolato da chiunque e fatto volare via.
La Via degli ospizi: un sentiero per viandanti
È utile stabilire che non si tratta di una teoria, ma di una specie di colpo d’accetta: uno scavo fatto per poter vedere cosa si nasconde sotto la terra in un determinato punto. E in questo caso il mio proposito è quello di presentare un itinerario alpino, che possiede alcune delle caratteristiche proprie del cammino.
Il percorso è obbligato, necessaria una certa preparazione tecnica, e il “piede fermo”, come dicono alcuni. Eppure, la Via degli ospizi è prima di tutto un sentiero per viandanti. Fin dal Medioevo viaggiatori, pellegrini, poveri attraversavano la gola del Canale d’Agordo per andare e venire dal Nord. Il tracciato, pericoloso per le insidie umane (banditi) e naturali (cenge, gole, frane, buio) era una scorciatoia, e andava percorso velocemente. Non c’erano (e non ci sono) insediamenti di rilievo, troppo poco sole per troppa poca terra in fondo a pareti alte quasi 1000 metri a strapiombo. L’unica eccezione erano gli ospizi: luoghi di conforto dove pernottare e rifocillarsi, zone salve sparse a pochi chilometri di distanza (ce ne sono 3 – Vedana, Candàten, Agre – nel giro di venti chilometri), mete psicologiche fondamentali per sopportare i pericoli del viaggio.
Il fatto che esistessero rifugi del genere intorno all’anno Mille, cosa inverosimile per noi, abituati a viaggiare per diletto e a pagare per dormire/mangiare, è in forza al fatto che a quel tempo, la misericordia era un codice vincolante, un contratto sociale, una prassi riconosciuta.
Il Canale d’Agordo
Ciò che rimane abbastanza riconoscibile, soprattutto da un punto di vista geologico, è l’ambiente. Ancora oggi, camminare lungo la Via degli ospizi, e quindi lungo i venti chilometri del Canale d’Agordo, incute timore. Ottimo esempio di valle glaciale, dal fondo pianeggiante, di ampiezza irregolare (si va da un chilometro di fondo valle a chiuse di qualche decina di metri appena) con pareti incombenti di Dolomia principale, la stessa che forma le Tre Cime di Lavaredo, la Marmolada e il Pelmo, ma a quote più basse, quindi più scura, per certi versi mostruosa.
Nel 1876 Antonio Stoppani comincia il suo viaggio tra le “bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica” del Bel Paese nel Canale d’Agordo, in un calesse guidato da “un vetturino fossile… fossile davvero, vi dico, il poveraccio! Bianco di pelo, grinzuto, curvo sotto la soma degli anni; doveva averne tanti da farne due vite. E il cavallo? Fossile anch’esso (…) Non eravamo ancora usciti dal paese che la povera bestia mostrava di ricordarsi dei molti anni vissuti. Ben fu presto il cocchiere ad assestarle un buon colpo di frusta; ma appunto allora il percosso arrestossi di botto, quasi chiedesse ragione dell’ingiuria. – Come? Dopo tanti anni di fedele servizio!… – Le bestie che non hanno ragione, l’hanno spesso più assai degli uomini, e questo era il caso.”
L’inizio della Via degli ospizi
Quando mi sono incamminato dal piccolo centro abitato di San Gottardo, all’inizio della Via degli ospizi, era notte profonda. Il ghiaccio e la neve riempivano tutto, anche gli occhi. Questa cosa, di favorirsi delle tenebre per affrontare le prime fasi di una lunga escursione è una, delle poche, belle tradizioni del mondo della caccia.
Campi di neve, alberi secchi, casupole e qualche faro. Il restante orizzonte sono solo le scure pareti.
Con l’inverno, l’assenza di chiome nei boschi alti, i depositi di neve nei pochissimi tratti pianeggianti, le rupi mostrano i tagli che i sentieri, illuminati dalla luna, costruiscono nelle montagne. A guardarli da sotto sembrano irreali. Ma è l’unico momento dell’anno in cui si possono vedere da lontano. Completamente ovattato, avanzo faticosamente nella neve. Il sentiero inclinato, di quelli in cui il piede appoggia sempre di traverso, e prevalentemente stretto, rende impossibile l’utilizzo delle ciaspole. Si sprofonda.
La linea dei tralicci scorre poco a monte. Segni rossi, tagli dei rami, intersecano a destra e a sinistra continuamente il mio percorso: sono i Monti del Sole, un reticolo infinito di tracce, mulattiere e percorsi abbandonati, segno di una commovente e popolare storia montanara. Non solo cacciatori dunque, come accade ad esempio in buona parte dell’alto versante del Canale d’Agordo, nel gruppo della Schiara, dove i sentieri si possono considerare “arditi”, e hanno il carattere di solitarie vie di avvicinamento. Qui c’era un’intera popolazione che andava in montagna, c’è un toponimo per ogni centinaio di metri, ed esistono più varianti che sentieri veri e propri.
Piero Sommavilla, grande intellettuale della montagna bellunese, a proposito delle località che scorrono sopra la mia testa (sono a circa 500 metri sul livello del mare) dice:
“Non si tratta di un sentiero di approccio vero e proprio ma di un percorso di ripetuta traversata e vagabondaggio (…) Il Zengión – Il nome si riferisce al sistema di cenge pressoché orizzontali che circondano a quota 1000-1100 i versanti meridionali del Col dei Camòrz, del Col dei Róndoi, del Laresè e del Col Bregón. Queste cenge hanno inizio a Est in corrispondenza del costone che delimita la Val Coi dei Spin e termine a Ovest sulla verticale del Col dei Camòrz; ma in realtà tracce in quota proseguono ancora, oltre la Val dei Fontanói, fin nel fondo della Busa del Fornèl, per uno sviluppo complessivo di circa 3 Km.” (Franco Miotto, Piero Sommavilla, Sentieri e Viàz dei Monti del Sole, 1996)
Puntuale, come un amico che si presenta in casa tua con la stessa faccia di sempre, arrivo a perdere il sentiero ufficiale (quello della Via degli ospizi) e mi inoltro in discesa nella forra del Vaión, uno di quei punti in cui non c’è ombra di neve ma solamente strati di ghiaccio. Percorro in salita e in discesa circa quattro e volte lo stesso tratto, raggiungo il letto del torrente Cordevole, consulto mappe e relazioni, scruto l’ambiente.
Grazie a delle fotografie scopro che il tratto attrezzato con un cordino metallico che ho percorso non assomiglia per niente a quello che avrei dovuto fare. Ritorno ancora più indietro e scopro l’errore: una traccia, con degli ordinati ciocchi di legno posati alla pianta dei carpini saliva su un promontorio più alto. Ormai è tardi, il sole scalda la neve dove affondo fino al ginocchio.
Agre: abitanti in luoghi selvaggi
L’ultimo appunto di questo primo tratto della Via degli ospizi riguarda Agre, una bella spianata poco oltre la metà del percorso, alla base della Val Pegolèra, poco lontano dal posto, sotto un traliccio, in cui mi sono arreso. Ci sono degli agricoltori che abitano nella casa colonica di Agre: trattori, stalle, fango, mucchi di fieno e legna accatastata, vestiti stesi nella brina e nei vapori del diesel. Abitanti selvatici di luoghi selvaggi: credo di non averli mai osservati a una distanza inferiore di 50 metri, e sempre con lo stesso spirito con cui si osserva, senza giudizio, la fauna selvatica. In un luogo così bestiale non mi ha stupito scoprire ci fosse il progetto di allestire un carnaio per favorire il ritorno del gipeto!
Da qualche tempo ho smesso di segnalare con esattezza la destinazione delle mie escursioni, consapevole che la mia meta, in certe località, assomiglia di più alla direzione del vento piuttosto che a un luogo preciso. In genere delimito un’area, una valle, un gruppo di sentieri, giusto perché si conosca l’intento (e casomai dove cercare). Forse è per questo che si intende dire: vagabondaggio.
Vale la pena finire con il buio, insieme ad Antonio Stoppani:
“La valle che si andava sempre più restringendo, disegnava una lista di cielo, tesa sulle cime dei monti a modo di nerissima tela (…) L’oscurissima zona era un trapunto di lucidissime stelle, tremule, luccicanti (…) La gola del Cordevole è angusta, orrida e cupa; ma tagliata a picco in seno a quelle dolomiti di straordinaria bianchezza, sulle quali da tanti secoli si esercita con efficacia sorprendente l’azione multiforme dell’atmosfera, prende aspetti così vari e così bizzarri, e al tempo stesso è così fredda e austera (quasi dicevo implacabile), che i suoi contorni si stampano indelebilmente nella fantasia.”
RUBRICA A CURA DI:
Mi piace gironzolare, sono una guida ambientale escursionistica e scrivo. La mia terra natale è Belluno, una terra misteriosa, angusta e selvaggia. Per questo motivo, sogno di accompagnare le persone in quei posti.
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