Una riflessione di Marco Triches che ci invita a sfruttare l’occasione di non poter andar lontano per leggere e andare alla deriva nel limitrofo. Scopriamo i sentieri di casa.
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Marco Triches è Guida Ambientale Escursionistica. Per Fatti di Montagna di cui è partner cura la rubrica Fatti della Schiara.
Nell’area industriale di Villa Fastiggi, Pesaro, sono comparsi gli alberi di Natale. C’è la nebbia quando raggiungo il capannone e i fossi intorno al fiume Foglia inondano di brina le strade. Querce che segnano i confini, con le foglie color rame, sbucano dai campi. Le poiane sono appostate nei rami e sui fili elettrici, per incominciare la caccia.
La radio del capannone dà il via alla lunga fila di trasmissioni dedicate alla pandemia, gli ascoltatori intervengono. L’opinione pubblica, specie in periodo natalizio, fa l’effetto di un treno che deraglia. Ciò nonostante, è fuori di dubbio che la radio sia un’ottima compagnia, soprattutto in tempi di forzata solitudine.
Come un raggio di sole che si apre un varco tra le nubi, arriva la voce dell’architetto Renzo Piano. Egli trova che sia molto triste che i luoghi da lui creati, prevalentemente “pubblici”, siano vuoti, a causa delle misure di contenimento del Covid 19. L’architetto auspica un ripensamento delle città, perché l’Europa intera (parafrasando) sarebbe un’unica grande città. Questo perché da noi i centri abitati si susseguono, non ci sono lande desolate, o meglio “deserti”. Città e provincia non sono in lotta, ma vanno unite: il vero nemico è il deserto!
Dopo l’intellettuale arriva il turno della gente comune. Da Belluno dicono che i forestieri devono stare a casa loro, perché è a causa di quelli delle seconde case se attualmente il Covid 19 sta circolando forte. Nei paesini altrimenti stavano bene! Altri accusano la folla delle città che si muove in massa, o per fuggire, o per comprare, o per andare a bere. Alcuni si accalcano per fare la carità (tema questo sempre caro al Natale).
C’è nervosismo. In tutte le altre stazioni regnano la musica Pop, il calcio e gli annunci commerciali (con gli sconti subito, in esaurimento, da non perdere, ma far presto!), tutto questo per non pensare. Che non è che ci sia molto a cui pensare!
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Ho comprato tutte le carte topografiche militari della campagna dove abito, territorio collinare tra l’Adriatico e Urbino, allo scopo di individuare con esattezza i nomi delle località che mi circondano. Ci saranno almeno una trentina di colli, montarozzi, vallucole, promontori costantemente sotto i miei occhi ogni giorno sulla strada che faccio per andare a lavorare. Su una dorsale particolarmente panoramica spuntano il monte “dentuto” di San Marino e la Romagna, il Conero e il monte San Vicino e la catena dell’Appennino: rilievi che per un marchigiano costituiscono la base dell’educazione sentimentale e civica.
Con il tempo ogni elemento del paesaggio, naturale o umano, per me ha assunto un significato.
Come guardare le stelle e conoscerne la storia, o il volo di un uccello, e identificarlo, così l’orientamento può diventare una faccenda che ci salva: resuscita una parte di mondo che dà conforto, come una musica, un romanzo o la pittura. E certamente guardare un passaggio e individuare le vie che possono favorire la fuga, nel caso qualcosa di catastrofico ci si metta alle calcagna, può avere la sua utilità.
Specialmente in città, nella scelta di un appartamento, di un quartiere, si farebbe bene a studiare i vicoli, o gli orari migliori (o entrambi contemporaneamente), per potersi dare alla macchia. Si noterà che se all’inizio non ci sono grandi scelte possibili (appena fuori dalla porta o si scantona a destra o a sinistra, oppure si va dritti ad attraversare la strada), una volta che si prende il largo le opzioni aumentano: una vecchia linea ferroviaria, stabilimenti abbandonati, canali, parchi secondari, muretti, fossi, benzinai e infine i campi arati e l’aperta campagna.
Guy Debord ne La società dello spettacolo alla fine degli anni Sessanta proponeva la “deriva” e la “psicogeografia” come strumenti utili per la resistenza al capitalismo, soprattutto nella sua forma architettonica: l’urbanismo, la libera circolazione delle merci e del consumo.
In buona sostanza uno va alla deriva ogni qual volta si metta a circolare liberamente nella città, senza scopo e tempi prestabiliti. La psicogeografia è invece la tecnica con cui si dividono in settori le città e si delimitano gli spazi (gli isolati, gli incroci, i varchi) dandone un significato psicologico (e direi sentimentale).
Quante sono le mappe che determinano il nostro movimento? Per esempio se conosco il luogo esatto del nido di un’aquila, o la tana di un tasso, o un particolare esemplare di ontano lungo il ruscello, la mia passeggiata terrà conto di quelle località, e quelle località daranno un senso particolare alla mia passeggiata, e di conseguenza anche alla mia vita.
Da pochi giorni ho scoperto l’esistenza di un piccolo lago naturale nei pressi della mia casa, normalmente terreno esposto alla siccità. Questa scoperta scintilla a tratti nel bel mezzo delle mie giornate, ed è, al pari della radio, un’ottima compagnia!
Sembra strano che nei paesini di montagna si sentano, per diritto di vicinanza alla natura, più al riparo dal Covid 19. Popoli ben più lontani da alimentari, bar, giornali, poste e autobus, sono stati contagiati. E non sorprende la difficoltà delle città (quel non so che di gattabuia), quando i loro abitanti faticano a concepire il diritto all’esistenza delle cittadine limitrofe, non le trovano sullo stradario. Torino e la sua cintura, per esempio: Settimo, Pecetto, Chieri, Volpiano, Collegno, Grugliasco, Orbassano, Nichelino, Moncalieri… Nomi normalmente associabili soltanto alla cronaca nera.
Non si tratta di trabocchetti della settimana enigmistica, ma è questione di interesse. Non è un caso che, proprio nei luoghi più sconosciuti, e sottoposti a stati avanzati di degrado: discariche abusive, incendi di materiale vario, veleni, nomee disgustose, il selvatico raggiunga livelli tali da rappresentare una ricchezza naturalistica. I rovi non significano solo abbandono, ma sono in primo luogo garanzia di rifugio.
Popoli del Nord, più abituati a studiare la natura, vedono cose in Italia che gli italiani non immaginano. Proprio in quelle strade in cui normalmente noi lanciamo i vuoti delle birre, o al massimo ci fermiamo a pisciare.
Nella nostra bella provincia, motorizzata, la quasi totalità dei campi coltivati rappresenta una grave perdita di biodiversità, di suolo e di acqua. E anche di sentieri. Camminare nel pantano di un campo, nel luogo dove c’era una via di transito pedonale, può essere un ottimo esercizio sportivo, ma dal punto di vista storico equivale a un funerale. I camioncini scaricano materassi, calcinacci e elettrodomestici sulle sponde dei corsi d’acqua; nei campi appendono ai pochi alberi superstiti cartelli di “proprietà privata”; dalle fattorie, con le bandiere italiane al vento, i padroni controllano che i passanti procedano senza scherzi. Dulcis in fundo arrivano i cacciatori con le jeep.
È pieno zeppo di accampamenti e torrette di ferro per sparare agli uccelli migratori. Quando cominciano, gridano da tutti i colli. Alla caccia stanziale, in autunno inoltrato fa seguito quella in movimento, che ha il suo culmine nella braccata al cinghiale. Operazione questa che prevede il dispiegamento di squadre di uomini e di cani, grandi urla per smuovere i branchi e l’uccisione finale. Si tratta di un fatto sociale, e per certi versi antico (è utile ricordare jeep, bar, cellulari…). Ma fa specie che questo continui ad essere considerato uno dei metodi più apprezzati dall’opinione pubblica agricola per la difesa dalle coltivazioni (industriali) e quindi della civiltà di provincia. Oltre ad essere uno dei pochi strumenti di accesso alla natura da parte dei suoi praticanti. Poi in teoria i nonni, appeso il fucile al chiodo o quasi, insegnerebbero ai nipotini le nostre tradizioni.
Mi viene in mente un pastore sardo che abita nelle campagne di Tavoleto, al confine tra Marche e Emilia Romagna: “Al giorno d’oggi tutti si sono dimenticati che una camminata in campagna ha i suoi pericoli. Non si può andare in giro e pretendere di non correre nessun rischio.”
Tutto considerato – saccheggi a destra e manca, e la nostra lunga serie di sconfitte – non ci resta che metterci in marcia. Potrebbe essere utile, per esercizio, immaginare il posto più bello del mondo, quello che vorremmo vedere ora (a me piace molto l’Adamello per esempio), e studiare una rotta per arrivarci. Una via che cerchi di evitare città, pianure, capannoni e snodi autostradali. Inevitabilmente muoveremo i primi passi da casa, avremo cura di esplorare tutto ciò che possiamo anche vedere inizialmente dalla finestra e raggiungeremo anfratti che mai avremmo immaginato. E alla fine magari ci cacceremo in un fiume, o in un bosco, o in un campo incolto, senza desiderare altro che starlo a contemplare.
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Sono colui che tiene le fila di quest’intreccio di idee, contenuti e competenze che è Fatti di Montagna. In un certo senso, essendone l’ideatore potrei anche definirmi come primo (cronologicamente parlando) partner. Ci tengo che si capisca che Fatti di Montagna non è il mio blog, ma uno strumento che serve per raccontare la montagna.
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