La nuova campagna di Mountain Wilderness “Basta ferraglia, basta nuove ferrate” con dei blitz provocatori, ma non impattanti, cerca di far riflettere sulla necessità di fermare la proliferazione di ferrate sulle nostre montagne. Noi, raccontando della campagna, abbiamo provato ad iniziare a farlo.
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La campagna di Mountain Wilderness per far riflettere
Ben venga in questa torrida estate la campagna di Mountain Wilderness contro la proliferazione delle ferrate.
Infondo è un po’ che anche noi sosteniamo che per il bene della montagna e del suo ambiente bisogna smettere di aggiungere. Ma alla lunga anche per il bene del turismo che così si pensa di creare e far crescere all’infinito. Un turismo sano per il territorio (e la sua economia) non può sostenersi su aggiunte e crescita infinita perché si rivelerebbe un boomerang, un danneggiare quel valore che rende attraente il territorio. É ora di iniziare a togliere.
Sono fiduciosi gli amici di MW. Ed è giusto e augurabile che prima o poi il messaggio culturale, che negli anni è stato seminato, possa trovare terreno fertile nelle nuove generazioni di alpinisti ed escursionisti.
Si apprende che due/tre attivisti di Mountain Wilderness hanno percorso ferrate particolarmente rappresentative esponendo uno striscione con la scritta “basta ferraglia, basta nuove ferrate”. Fotografato lo striscione, lo hanno rimosso e hanno proseguono la salita.
Le fotografie sono state condivise sul sito e i social di Mountain Wilderness, inviate alle redazioni dei giornali, dei siti di informazione e delle testate che si occupano di montagna. L’obiettivo è quello di stimolare la riflessione attraverso la condivisione dei motivi della azione.
Tra l’altro, i blitz così realizzati non lasciano tracce: lo striscione viene rimosso dopo le foto. Inoltre, non necessita di un’organizzazione complessa, non comporta un aggravio importante di pressione antropica sull’area.
Non si può che concordare con MW: perché la transizione ecologica porti dei benefici, è necessario che sia una transizione di approccio prima che tecnologica. Deve essere il pensiero a definire i fini e i valori del progresso tecnologico perché la tecnologia non diventi strumento di produttività distruttiva.
A ispirare le lotte ambientali è la ricerca di una ricchezza di fini e una semplicità di mezzi. Questo sostengono gli ambientalisti. “Ci siamo sempre battuti”, si legge nel sito di Mountain Wilderness, “per limitare la potentissima diffusione di quelle infrastrutture, generalmente realizzate per attività sportivo-ricreative, che avviliscono l’ambiente e non arricchiscono la nostra esperienza, trasformandola nell’ennesimo prodotto di consumo. Gli impianti di risalita e di innevamento artificiale oltre ogni buon senso, il gigantismo dei rifugi d’alta quota, la trasformazione dell’alta montagna senza limiti. Queste sono le nostre battaglie quotidiane”.
E più avanti: “L’impatto di una ferrata non è certo quantitativamente paragonabile a quello di un impianto da sci ma la prospettiva è la stessa: si trasforma l’ambiente invece di modificare il nostro approccio ecologico. La nostra testimonianza, con uno striscione srotolato, fotografato e riportato a casa, è un invito alla riflessione, rivolto soprattutto alla comunità dei frequentatori della montagna”.
La proliferazione di ferraglia sulle montagne
“Perché continuare a fare ferraglia anziché disfare l’esistente?”, si chiede a sua volta Michele Comi, guida alpina e ambientalista vicino alle istanze di MW e sicuramente anche alle nostre. È sotto gli occhi di tutti il messaggio imbonitore che viene dalla montagna non solo con la ferraglia delle ferrate, ma anche anche con i sempre più diffusi ponti tibetani sospesi sugli abissi. Altra ferraglia in quantità industriali. Queste strutture ormai abbondano e debordano con passerelle da vertigine sospese nel vuoto, talvolta allo scopo di collegare a piedi due vette sufficientemente distanti l’una dall’altra.
Come sono inequivocabilmente segni tangibili di un turismo sempre più pacchiano anche le panchine definite con termine inglese Big Bench. Alcune hanno (e per fortuna, aggiungiamo) suscitato malumori come si è registrato questa primavera nelle frazioni alte di Sondrio. A richiedere esplicitamente con una petizione la rimozione “in tempi brevi” di una sgradita Big Bench in quel di Triangia sono stati i locali con una petizione.
Tra trasformazione del paesaggio e predazione: evoluzione e storia delle vie ferrate
Vogliamo andare avanti così? Solo sulle Dolomiti si contano circa 150 vie ferrate; alcune hanno una valenza storica o paesaggistica riconosciuta, la maggior parte sono nate a scopo turistico o sportivo.
È importante sottolineare che non si sta dicendo che non si debba interagire e all’occorrenza anche modificare l’ambiente. Donne e uomini lo hanno sempre fatto in un’alleanza che dura da millenni e ci ha consegnato i paesaggi che tanto amiamo.
Non può sfuggire a chi frequenta la montagna che impianti di risalita, strade di quota, vie ferrate e quant’altro equivalgono ad addomesticare un ambiente geografico che trae il suo significato proprio dal proporsi come non addomesticato e non addomesticabile.
Organizzare lo spazio attorno a noi sulla base di categorie culturali, nelle loro manifestazioni materiali e simboliche, è sempre stata una nostra prerogativa. Fondamentale sono però l’atteggiamento di alleanza e il senso di interdipendenza. Quando vengono a mancare si sfocia in una relazione predatoria nei confronti dell’ambiente e si passano quei limiti che esistono anche a volerli ignorare. Sì perché molto spesso è questione, oltre che di significato, anche di numeri. Ed è così anche per le vie ferrate.
Anche se le prime sono apparse a fine 800, il primo impulso alla loro diffusione è stata la Prima guerra mondiale, in quanto dovevano servire per agevolare il raggiungimento da parte delle truppe dei luoghi più impervi. Insomma, non esattamente uno scopo edificante. Successivamente, nel secondo dopoguerra, iniziò l’opera di ripristino e recupero di quelle vie ferrate per renderle turisticamente fruibili. Una via ferrata può, come un sentiero, avere anche un significato di memoria storica, come quella legata alla guerra, ma anche a certi paesaggi culturali, vie storiche, contrabbando, alcuni paesaggi industriali e via dicendo. Ma i numeri sono importanti e la proliferazione non può essere giustificata da questo. Con gli anni ’80 il modo di intendere la ferrata è cambiato in sintonia con il cambiamento culturale in corso e sono diventate di fatto palestre avulse da ogni motivazione storica. E infine sono arrivate le Vie ferrate “alla francese”, più corte, meno impegnative fisicamente, anche nell’avvicinamento, e aventi la ricerca dei passaggi mozzafiato come fine.
Negli ultimi decenni i percorsi attrezzati hanno conquistato tutte le Alpi. Le ferrate “alla francese” sono generosamente attrezzate con cavi, maniglie, staffe e, se possibile, un ponte tibetano sospeso nel vuoto per un divertimento estremo. Sugli Appennini la loro presenza è meno invadente, ma le troviamo dalle Apuane al Gran Sasso, dall’Emilia alla Sardegna.
Alcuni percorsi, per lo più sentieri attrezzati, sono diventati dei classici, ormai appartengono al patrimonio della montagna; la maggior parte delle ferrate esistenti sono state invece realizzate per aumentare la frequentazione di pareti spesso riservate alla pratica dell’alpinismo e del tutto innaturali per l’escursionista, senza troppo curarsi dei risvolti legati alla tutela e al modello di frequentazione degli ambienti attraversati.
Ci avete fatto caso? Nel luna park delle nostre Alpi s’inventano attrazioni sempre più stravaganti. Come la ferrata “notturna” di Varallo Sesia che viene illuminata a giorno con indubbio effetto scenografico richiamandosi alla poetica dei pittori futuristi ai tempi delle prime centrali elettriche come si è letto in “MountCity”. Ovvero si installano piste “estive” di bob che solcano con quintali di ferraglia i verdi pascoli della Lombardia. I piccoli carrelli raggiungono velocità da brivido con gran vociare dei turisti che li conducono. Trastulli che avrebbero fatto inorridire Bepi Mazzotti, gran fustigatore del turismo cafone fin dagli anni trenta.
Per concludere, l’antropizzazione forzata e innaturale di questi spazi ne soffoca irrimediabilmente la vocazione. Hanno ragione quelli di Mountain Wilderness: non li trasforma in docili schiavi, li uccide. Continuino così, con azioni provocatorie ed esemplari, capaci di scuotere l’opinione pubblica. A loro non può che andare il plauso di tutti noi che ci riteniamo “fatti di montagna” e un po’ sinceramente lo siamo.
Roberto Serafin con
Luca Serenthà
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