Cosa centrano il gaucho e gli indios con le Dolomiti Bellunesi? Il poregràmo è il nostro personaggio mitico che li può rievocare? Lo scopriremo seguendo Marco Triches sul Mont Alt: forse lo incontreremo…

Qui la puntata del podcast con il racconto di Marco

In terre lontane dalle Dolomiti Bellunesi: il gaucho e gli indios

La pampa, Argentina. Migliaia di omnibus circolano tra arbusti, sabbia, rocce e vento. Non c’è ombra o cespuglio di spine  che non esulti al nome del gaucho (nel tempo: antico abitante delle campagne, lavoratore seminomade della pampa, vero produttore delle più grandi risorse economiche agricole e di bestiame del paese, protagonista delle guerre d’indipendenza). La cultura, la politica, la religione, la natura della pampa trovano nel gaucho il significato più completo, quello noto in tutto il mondo, e riassumibile in queste frasi di Leopoldo Marechal (Adán Buenosayres, 1948):

Ora ti vedi sul cammino da Maipù a Las Armas, tracciato sulla pianura da orizzonte a orizzonte. Calvalchi al seguito di cento torelli rossi, avvolto dalla polvere sollevata da quattrocento zoccoli. Ti hanno lasciato mettere gli stivali neri che con il poncho di vigogna e il pugnale dal manico d’argento costituiscono la sola eredità ricevuta dal nonno Sebastián. Si avvicina mezzogiorno e il sole, furibondo arciere, scaglia raggi a piombo sulla terra. Vero è che il sudore scende dalla fronte e depone sulle labbra un benefico sapore, che la polvere acceca gli occhi e dissecca le narici, che le orecchie sono frastornate dal muggito delle bestie e dagli alalà dei mandriani. Ma il tuo cuore batte come uno scampanio di festa, e non desideri altro destino che quello di avanzare lungo un cammino tracciato in mezzo alla pianura da orizzonte a orizzonte, al seguito di cento torelli rossi che riardono come braci a mezzogiorno.”  

Sotto un pioppo nero lungo l’argine del Po, in un comune qualunque tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, fa strano pensare che una pianura possa essere così tanto potente. E si può quasi andare, sulla scorta dei sogni sudamericani, alla ricerca, tra capannoni, campanili e campi coltivati, del nostro “minigaucho”. Il santo liberatore! In fin dei conti un conquistatore: l’anno 0 della cultura del gaucho era già l’anno mille, duemila, tremila… di qualche generazione di indios.

Lo stesso accadde in Nord America, nelle Grandi Pianure del Missouri, dove le conquiste dell’800 hanno spazzato via (o rinchiuso) gli indiani (Teton, Santee, Yanktonai, Yankton), e hanno installato al loro posto i coloni e successivamente i trattori. William Least Heat-Moon (Nikawa, 1999):

“Il 31 maggio Nikawa fece il suo ingresso in quello che un tempo era noto come il Paese Sioux, una vasta regione corrispondente a quasi tutta la metà settentrionale delle Grandi Pianure, dimora dei popoli su cui si è formata l’idea prevalente nel mondo riguardo ciò che è un indiano d’America.” 

“Oggi l’Ovest americano è un bastione di resistenza a qualsiasi cosa provenga da Washington, se non gli assegni dei sussidi, e quelli che gridano più forte contro le ingerenze federali sono i nipoti di chi si è impossessato delle terre degli aborigeni. Le milizie di estrema destra sono per gli indiani un vero spasso.”

In primo piano da destra Piz de Mezodi, Zimon de Gena, Gena; oltre le Pale di San Martino. Al Mont Alt - Dolomiti Bellunesi
In primo piano da destra Piz de Mezodi, Zimon de Gena, Gena; oltre le Pale di San Martino
In apertura: Nahuel Huapi, Santiago de Bariloche, stazione di fine corsa

Il poregràmo e la quintessenza delle Dolomiti Bellunesi

Nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi verrebbe voglia di stanare qualche figura mitica, gli avi spirituali della terra, degli indios veneti, soprattutto in tempo di Mondiali di Sci e infrastrutture. Ma da che parte bisogna guardare?

Se i padri delle nostre montagne sono cacciatori (quindi in un certo senso conquistadores), minatori, boscaioli, allevatori, contadini: avi certamente più vicini al naturale di quanto non lo siamo noi, escursionisti, ma pur sempre guidati dalle armi della sussistenza (certe immagini del passato di taglio dei boschi o di desertificazione dai fumi dei forni fusori, o ancora lo scarico di scorie nei torrenti nel ‘900 non sono esattamente edificanti); e dalla chiesa (la nostra spiritualità è angusta: un campanile affilato nella bella valle pulita, in ordine fin sotto le poche piante, l’erba sfalciata tutta quanta). 

Bè, in un quadro del genere, mi viene in mente un personaggio, che è forse l’unico in grado di disobbedire alle regole comuni, un reietto, magari in relazione con la natura soltanto a suon di bestemmie, sgraziato come lo sono le pendici delle nostra montagne, in rapporto con vitalbe, edere e rovi come lo sono gli scheletri degli alberi su cui si arrampicano: il poregràmo (anche: povero-misero, dove “póre” in dialetto è usato anche per indicare un defunto: es. “póre Toni”).

Al di là del fatto che questo termine ha svalicato i suoi confini naturali, e viene comunemente utilizzato per accusare qualsiasi personaggio oscuro che faccia il male, il poregràmo appartiene prima di tutto alla categoria degli ultimi, gli sfortunati, e in quanto tale, vicino agli indiani di tutta la terra. Soprattutto non ha eserciti, anzi, ha l’aria di uno che è braccato da mille spie, ufficiali, agenti di servizio. E in media questa parte da controllori spetta a noi, che lo teniamo d’occhio, pronti a chiamare la centrale di polizia ogni volta che ci incrocia la strada. Perché ciondola, probabilmente ubriaco, e minaccia il traffico ad esempio, lungo qualche strada, in galleria, o pericolosamente vicino al paracarro, in curva.

Alcuni spunti. Uno ha decisamente trascorso una giornata memorabile in montagna, magari verso Agordo, sul Pelmo, Civetta, Pale di San Martino o San Lucano, il lago di Alleghe: piena luce, aria buona, soddisfazione. E poi, nel tornare a casa, lungo la strada regionale Agordina, su un curvone spunta quel ceffo, cencioso, metà in mezzo alla strada e, appena superato il pericolo di finire sotto un’auto (come un cervo o capriolo qualunque), si infila in una strada di ghiaia dissestata e entra in un rudere di casa, avvolto da rampicanti e circondato da frane. Dopo tanta perfezione, e idilli alpini, è certo un brutto affare imbattersi nel poregràmo sulla via del rientro in automobile. (Utilizzo qui il termine per una situazione e un individuo preciso, considerando che non ci sia alcuna offesa, nell’intendere la condizione umana, tutta quanta, un misto tra povertà e miseria).

Eppure, a mio modo di vedere, è quella la quintessenza della montagna bellunese, o almeno alle quote più basse (dai 300 ai 1000 metri): un misto di forre, burroni, vegetazione fitta, terra e fango. Luoghi quasi impraticabili, soprattutto nell’ottica di una gita intrapresa per il raggiungimento di vasti panorami, e luminosa luce. Le radici, le foglie e la poltiglia danno un carattere bestiale al paesaggio e al suo abitante.

In inverno ci si sente come muniti di ramponi e piccozza nel bel mezzo di un burrone di terra franosa.

Tasso in Val Salet, a valle del sentiero di salita, le pendici delle nostre montagne. Al Mont Alt - Dolomiti Bellunesi
Tasso in Val Salet, a valle del sentiero di salita, le pendici delle nostre montagne

Lungo la salita al Mont Alt

Quando abbandono il buio del Canale d’Agordo per tentare di salire in cima al Mont Alt, nei Monti del Sole (Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi), dopo il guado gelido del Cordevole e la sistemazione di scarponi e zaino, la mia ordinata tenuta da escursionista si trasforma in brevissimo in una tuta mimetica di fango, erba e strappi. Inciampo ogni pochi minuti, fatico a trovare il passo, devo continuamente orientarmi e leggere gli appunti delle relazioni. Sbaglio a seguire la traccia ripetutamente, e mi imbatto in un tasso nella Val Salet, e anche in un singolare parapetto giallo in Val di Fratta, dove si legge essere morto un operaio durante i lavori per l’acquedotto.

Val di Fratta, una delle valli laterali, corrimano per lavori dell'acquedotto. Al Mont Alt - Dolomiti Bellunesi
Val di Fratta, una delle valli laterali, corrimano per lavori dell’acquedotto

Il sentiero è molto ripido e in breve si raggiungono il Col de la Cazéta, quota 826 metri (diminutivo di caza, caccia) e il Col de i Pòrz (1113 metri). Se ad entrambe queste località sono legato perché panoramiche, pianeggianti (in un mare di salita) e certe (raggiungerle significava essere sulla strada giusta!), è alla seconda che và tutto il mio favore. Un tempo ampio ripiano prativo sospeso tra i dirupi, soleggiato e isolato, oggi il “colle dei maiali” è caratterizzato da faggi (molti dei quali recentemente abbattuti dal vento) ed erba altissima. Se uno amasse verificare la psicologia dei luoghi, di certo questo sarebbe uno di quei posti da prendere in esame. Attraversarlo senza perdere la giusta rotta è una questione di tempo: bisogna raggiungere il punto dove finisce l’altopiano e comincia il sottile crinale di bosco che lo collega alla prossima dorsale rocciosa (la Costa dei Pèz). Corre in basso la traccia che si interna in Val Coràie, qualcosa di più simile a un romanzo di avventure che a un luogo realmente esistente.

Dal Col dei Porz la diramazione per la Val Coraie. Al Mont Alt - Dolomiti Bellunesi
Dal Col dei Porz la diramazione per la Val Coraie

A questo punto, complice la certezza della solitudine, il mio incedere ha perso qualsiasi parvenza di ordine, di tecnica o precisione: incespico, sporco dalla testa ai piedi, senza alcuna attenzione all’equipaggiamento che, sicuramente sistemato male nello zaino (tra tutti i dentro e fuori di quaderni, acqua e viveri), pesa tutto da una parte. In questa maniera raggiungo il punto chiave dell’itinerario (quota 1180 metri): le Scaléte o Stròp de le Féde:

“una cengia rocciosa ben individuata, talvolta stretta ed esposta ma non difficile (vi transitavano in antico le manze – giovenche che non danno ancora il latte – dirette ai pascoli del Mont Alt; sono ancora visibili alcune rudimentali cancellate di legno che in tempi più vicini recintavano le greggi)” (Franco Miotto, Pietro Sommavila, Sentieri e Viàz dei Monti del Sole, 1996).

Vista dalla Forzela de le Canevuze, Monti del Sole, Zimon de Peralora
Vista dalla Forzela de le Canevuze, Monti del Sole, Zimon de Peralora

Vegetazione e fango: la ricerca della via per il Mont Alt

Il vuoto della Val Coràie sottostante, in quel punto che immette dalla Costa alla Val dei Pèz ha la capacità di riassettare tutto quello che ho con me, dall’animo alle scarpe. A questo punto bisogna immaginare un vallone, a forma d’imbuto, riconoscibile a fatica se visto da dentro (la salita e la boscaglia non danno nessuna tregua), sospeso a quasi mille metri di dislivello dal fondovalle, dove scorrono il Cordevole e la strada regionale agordina. Se il Col dei Pòrz era ameno, la Val dei Pèz si potrebbe dire mistica (da considerare che ci sono salito all’incirca tre volte, e solo l’ultima volta sono riuscito a trovare il varco giusto – c’era una mulattiera, quindi non un’esile traccia – per percorrerla tutta fino alla cima del Mont Alt). Le uniche due note di rilievo, nell’ambiente che sta per venire, sono la Pòsta de l’Acqua (“posta” è l’appostamento per il cacciatore), quota 1200 metri e una sorgente nei pressi dell’antico Campìgol (spiazzo vicino alla casera dei pastori), quota 1650.

Tra buche, radici e avvallamenti, l’orizzonte è interamente occupato, in tutti i punti cardinali, da una fittissima mugheta: l’attuale ambientazione che hanno assunto i pascoli del Mont Alt. Solo cielo e mughi, con l’unica certezza che è la salita sotto i piedi a dire se la direzione è esatta. Non credo di aver mai visto uno spettacolo del genere: capisco il rammarico di chi avrebbe preferito gli antichi prati sommitali, e certamente l’aquila qui non può più cacciare, ma la cima del Mont Alt (unita alla Palàza e alla Cròda Bianca) oggigiorno è un sogno ad occhi aperti: un enigma vegetale all’altezza delle nubi

La cima è posta a 2069 metri d’altezza e, dietro alle ghiaie e ai sassi, quello che si vede è tutto sotto di noi.

Spartiacque dei Monti del Sole, Mont Alt - Dolomiti Bellunesi
Spartiacque dei Monti del Sole, Mont Alt

***

Le condizioni del rientro mi hanno imposto un look piuttosto cavernicolo: quando ho raggiunto, ormai all’imbrunire, il guado e la strada ero ormai più simile a un pezzo d’argilla e croste con le parvenze umane. Ho slegato la bici, l’ho spinta sulla carreggiata, mezzo sbandando, dimentico del traffico; e proprio in quel momento è sfrecciata via un’auto strombazzante, in discesa da Agordo. 

Chissà chi pensano che io sia!  

22 Febbraio 2021
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RUBRICA A CURA DI:
Marco Triches

Mi piace gironzolare, sono una guida ambientale escursionistica e scrivo. La mia terra natale è Belluno, una terra misteriosa, angusta e selvaggia. Per questo motivo, sogno di accompagnare le persone in quei posti.

 

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