Di allarmi ambientali e climatici oggi si parla diffusamente (e in alcuni casi ci sono ancora troppe parole in proporzione ai fatti), ma molti di questi allarmi erano già stati lanciati nei decenni scorsi. Facile parlare col senno di poi, ma la sensazione è che si sia perso molto (forse troppo) tempo prezioso. O bisogna dire meglio tardi che mai?

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Quando nessuno parlava di allarme per i ghiacciai

Mancano meno di mille giorni all’apertura dei Giochi Milano Cortina 2026 e il countdown potrebbe essere l’occasione giusta per rimettere a fuoco la lunga e tormentata preparazione all’evento. Più ombre che luci, diciamolo subito. Forse è fare un’opera utile compiendo un passo indietro, risalendo a trent’anni fa quando molte cose stavano per cambiare nell’universo alpino. E le grida d’allarme si moltiplicavano quando perfino al Cai presieduto autorevolmente da Roberto De Martin giungevano queste grida per il clima che cambiava e per i ghiacciai ormai da tempo testimoni del cambiamento climatico. 

Lo ricorda oggi Franco Secchieri, glaciologo e geologo che in quegli anni in veste (se non sbaglio) di consigliere centrale aveva lanciato l’allarme. “Avevo allora fatto il punto della situazione, già preoccupante, sottolineando l’importanza di fare ricerca”, racconta oggi Secchieri intervistato dal quotidiano ilDolomiti. “Ho osservato l’evoluzione dagli anni ’80 ad oggi contribuendo alla realizzazione del catasto ghiacciai alpini e passando poi allo studio dei ghiacciai presenti sulle Dolomiti, lavorando a differenti pubblicazioni in ambito scientifico e scrivendo differenti libri. Ma era una realtà di cui nessuno parlava, i ghiacciai erano considerati come realtà ‘lontane’, quasi come fossero su Marte. All’epoca ero l’unico a interessarsi in materia”. 

Ci si potrebbe domandare dove fosse il Cai, e nella mia veste di iscritto è giusto che io me lo chieda con tutto il rispetto per chi in tutto questo tempo nell’associazione si è speso assumendo incarichi gravosi. Nei tempi che corrono è giusto prendere atto, e sono felice di poterlo fare in questa rubrica, dell’articolo su Secchieri che già nell’altro millennio si preoccupava per il ritiro dei ghiacciai. “Fortunatamente, ora di ghiacciai e cambiamento climatico se ne parla molto di più e la sensibilità è certamente diversa”, è la sua conclusione d’intonazione conciliante anche se il parlarne oggi è un obbligo più che una fortuna. E qualcuno potrebbe venirsene a noia.

Franco Secchieri Se avessimo considerato seriamente quegli allarmi sull'ambiente...
Franco Secchieri

Olimpiadi e ambiente: già trent’anni fa si segnalava il rapporto problematico

Ma un altro argomento, quello del poco sereno rapporto tra giochi olimpici e ambiente, coinvolgeva trent’anni fa gli ambientalisti e solo di striscio il Club alpino. Dello scorbutico argomento ho trovato una pallida traccia sullo Scarpone del 16 gennaio 1993. A quanto si legge, si era aperto un vivace dialogo tra il Comitato olimpico internazionale e le Associazioni alpinistiche. Ad aprire la diatriba era stata un anno prima, nell’ottobre del 1992, una lettera al presidente del CIO Juan Antonio Samaranch. Il documento, firmato dai presidenti dell’Alpenverein Sudtirol, del Cai, dell’Osterreischer Alpenverein, del Club alpino francese, del Deutscher Alpenverein e del Club alpino svizzero non nascondeva le “inquietudini” per i possibili effetti negativi dei Giochi invernali. Quelle stesse inquietudini che con il tempo si sono trasformate in rabbia e in amarezza per il prezzo da pagare dei Giochi tra colate di cemento e consumo di suolo senza precedenti.

La riposta del Cio  non si fece attendere. Come riferì Gilbert Felli, direttore sportivo del Comitato olimpico internazionale, l’importanza dell’ambiente nello sviluppo degli sport non poteva che diventare uno degli argomenti principali del XII Congresso olimpico che si sarebbe tenuto a Parigi nel ’94. E così è stato. Nella lettera citata si riconosceva uno sviluppo costante dei Giochi e dei loro contenuti. Positivo era considerato che le discipline si moltiplicassero. I presidenti dei Club della regione alpina andarono in visibilio all’idea che gli sport legati alla montagna ricevessero dai Giochi nuovi impulsi.

“Tuttavia”, si legge nel documento, “l’organizzazione materiale di questi Giochi suscita in noi serie inquietudini per gli effetti negativi sulla natura e l’ambiente delle regioni che accolgono le manifestazioni. La realizzazione delle infrastrutture sul posto impone alla montagna nel suo insieme un tributo sempre più pesante da un’Olimpiade all’altra. I giochi di Albertville, organizzati in una regione intensamente vocata agli sport invernali, dimostrano chiaramente che nuovi e vasti spazi naturali sono stati distrutti, nonostante una gran parte della montagna fosse già stata sfruttata”.

Cantiere bob Se avessimo considerato seriamente quegli allarmi sull'ambiente...

Trent’anni passati invano?

Sono al corrente le nuove generazioni di questi oggi inconcepibili e immutabili effetti collaterali dei Giochi? Nuove modalità si chiese all’epoca che venissero fissate nell’attribuzione dei giochi. A trent’anni di distanza è giusto domandarsi se tali modalità siano state rispettate o se trent’anni siano passati invano, nell’indifferenza delle sentinelle di cui sopra. 

Per l’esattezza, in quel 1993 si chiese anzi si impose dal Cio di non organizzare giochi al di fuori delle regioni dove già esistono infrastrutture sportive in misura essenziale; di utilizzare al massimo località  invernali complementari o regioni contigue; di favorire la cooperazione internazionale utilizzando, se possibile, una regione attraversata da frontiere; di ridurre al massimo i lavori di costruzione per installazione il cui ulteriore impiego rischiasse di divenire aleatorio. 

Sono trascorsi trent’anni, il tempo di una generazione. E oggi queste modalità non possono che farci riflettere sull’inesistente operare di certe presunte sentinelle benché nel frattempo si siano concepiti bidecaloghi e “carte” e protocolli di colore obbligatoriamente green. Quanti treni si sono nel frattempo persi? E c’è qualcosa di strano se ogni  tanto si sospetta che in trent’anni si siano messe sul tavolo nient’altro che chiacchiere e distintivi?

Ma non vorrei esorbitare e d’altra parte del senno di poi, come si dice, sono piene le fosse. In tutto questo tempo il Cai ha avuto anche la presunzione di considerarsi una indispensabile sentinella, o perlomeno così lo definì lo scrittore triestino Paolo Rumiz in occasione del 98° Congresso nazionale dove si trattò il tema dell’identità e ruolo del Club Alpino Italiano in una società in trasformazione. 

paolo rumiz Se avessimo considerato seriamente quegli allarmi sull'ambiente...
Paolo Rumiz

Quando Rumiz disse che i nostri fiumi non mormoravano più

Fu quello se non sbaglio il simposio in cui Rumiz lanciò la sua invettiva contro il degrado della montagna chiedendo che il Cai ne tenesse conto rendendo i lavori della tutela ambientale prioritari su qualsiasi altra discussione. Ma temo che anche il volenteroso Rumiz sia rimasto inascoltato.

Era il 2008, cinque anni erano trascorsi dal 2003, l’anno della grande sete. Il quadro tracciato da Rumiz fu drammatico. “Non esiste in Europa un Paese con i fiumi nello stato impietoso di quelli italiani”, ebbe a dire lo scrittore, reduce da un reportage sull’argomento per conto del quotidiano La Repubblica.

E aggiunse, sempre in quel remoto 2008, che “le nostro acque non mormorano più, sulle nostre valli scende una cortina di silenzio funebre di cui nessuno parla”. Parole al vento, benché oggi al Trento Film Festival si organizzino discussioni “a tutto campo” sulla crisi climatica. Meglio tardi che mai.

Roberto Serafin

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29 Giugno 2023
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