Il concetto di sacralità della montagna attraversa le epoche e le culture trasformandosi e adattandosi. Ragionare e anche dibattere sul senso del limite ovvero sulla capacità o necessità di porselo, sul rispetto e sul sacro, è senza dubbio utile. Deleterio è invece che questi concetti non provochino alcun interesse. Oggi Serafin ci propone una doppia occasione per rifletterci. Lasciamoci pure provocare, perché se un’iniziativa come quella di assegnare il titolo di Montagna Sacra al Monveso di Forzo nel Parco del Gran Paradiso, attira l’attenzione solo di chi è già sensibile al tema perde sicuramente parte della sua efficacia. Voi che ne pensate?
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“Sacred Mountain” di ieri e di oggi
Che cosa ne dici Luca, che sia questa la volta buona? Da qualche tempo si favoleggia tra addetti ai lavori di una montagna sacra che potrebbe svettare nel Parco del Gran Paradiso. Viene con una certa presunzione definita, tra virgolette, “un’idea rivoluzionaria per il nostro tempo avido di performance e povero di spirito”. O almeno queste parole si leggono nel portale sherpa-gate dove compare anche un invito a sottoscrivere questa iniziativa in concomitanza con i 100 anni del Parco nazionale Gran Paradiso che si celebrano nel 2022.
A costo di rendermi ulteriormente antipatico, ho avuto modo di esprimere in MountCity qualche personale riserva sul progetto, subito bollata come una minchiata da uno degli ideatori di questa “Sacred Mountain”. Concordo comunque con il saggio Carlo Alberto Pinelli. Consacrare una vetta trasformandola da un giorno all’altro in un tabu, anche secondo il mio modesto parere potrebbe avere un sapore artificioso.
So già come la pensi perché ne abbiamo parlato. Un sano ragionare e pacato dibattere sui temi del limite, del sacro e del rispetto sono ottima e utile cosa. Più utile, ai fini che ci si pone costituendo una montagna sacra, è il discuterne piuttosto che il non farlo. Se poi, la costituzione di una montagna sacra, suscitasse solo l’interesse di chi approva e il disinteresse di tutti gli altri rimarrebbe un’operazione incapace di stimolare alcunché.
Ma cambiamo un attimo scenario. Nel mio modesto girovagare per le montagne del mondo, indelebile rimane il ricordo del Machapuchare, il Cervino del Nepal alto 6993 metri. Te lo trovi di fronte, candido e austero, al termine dell’Annapurna Trail quando arrivi alla città di Pokhara. Risulta particolarmente sacro al dio Shiva e vi è quindi vietata la pratica dell’alpinismo.
Sul Monte Sinai caro a Mosé si sale invece liberamente e all’alba si fa un bell’applauso al sole che sorge sorseggiando una tazza di te caldo. Un po’ quello che succede d’estate sulle Apuane dove dalle spiagge della Versilia sale un fiume di turisti a godere il sorgere del sole dalla Pania della Croce che sacra non può certo essere considerata in quel contesto balneare.
Santi e Briganti nel Tibet ignoto
Per andare alle radici del fenomeno, ti dirò che giunge a proposito in questi giorni l’uscita sugli scaffali di un libro della Hoepli. È un appassionante diario di una spedizione del 1935 alla montagna sacra del Kailash o Kailasa nel Tibet occidentale. Intitolato “Santi e briganti nel Tibet ignoto” è stato scritto da Giuseppe Tucci (Hoepli, 205 pagine ristampate anastaticamente, 29,90 euro). Per chi non lo sapesse, Tucci (1894-1984) fu orientalista, esploratore, storico delle religioni, organizzatore di una decina e più di spedizioni scientifiche in area himalayana.
Qui l’autore racconta come si mescolò ai pellegrini indiani che visitano il Kailas o Kailasa. Lo accompagnava il bravo fotografo Eugenio Ghersi, un capitano medico con alle spalle alcune esperienze alpinistiche.
“I pellegrini indiani che visitano il Kailash o meglio il Kailasa guardano solo entro se stessi; la fede li trascina”, osserva per cominciare Tucci. “L’impossibilità fisica non esiste; l’ascensione della montagna sacra è, secondo la tradizione dell’India, soltanto questione di purezza interiore. Chi ha l’animo sano e terso può salire fino sulla cima”.
Oggi l’invito consiste invece nell’astenersi dalla salita della “Sacred Mountain”. E ciò, se si è ben capito, per riconsegnarla (sic) alla natura attribuendole, con vari distinguo, una sacralità in senso ampio, non necessariamente religioso.
Il circuito della montagna sacra ai tempi di Tucci, spesso sotto un torbido cielo di tempesta, non era comunque impresa da poco. “Il sentiero dei pellegrini monta su un pianoro sassoso”, annota Tucci. “D’un tratto il sentiero si restringe in una forra che si insinua tra muraglie giganti. In uno spiazzo un alto palo indica il luogo ove ai devoti si svela nella gloria dei suoi ghiacci immacolati la cima del Kailasa, divino perché tre religioni ne fanno la montagna più sacra della terra”.
Monveso di Forzo Montagna Sacara
A mio avviso la lettura del libro di Tucci è particolarmente indicata a chi oggi s’interessa di “sacred mountains” rifacendosi inevitabilmente alla cultura orientale, quindi alla montagna sacra perché residenza degli dei, ma con un approccio molto moderno. Sono curioso di vedere come andrà a finire. Per leggere e sottoscrivere il progetto trovate il link qui al piede. Ma prima, vi raccomando, godetevi il Tibet di Tucci, un irripetibile girotondo di santi e briganti.
Roberto Serafin
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