Addentrandosi in un bosco per fare il faticoso lavoro del boscaiolo può capitare di imbattersi in un faggio. Un faggio può essere “sbagliato”? Altrettanto faticoso può essere addentrarsi nelle contraddizioni e rendersi conto che alcune sono da proteggere e non da eliminare.
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Il lavoro del boscaiolo
Come brucia bene il faggio nel fuoco. E quanto calore che fa, quanto dura! Tra tutte le risorse boschive per un contadino alpino di un tempo, certamente il faggio era una sorta di benedizione. L’equivalente di un bel pezzo di carne, o di una zuppa densa!
“I contadini, quando dovevano decidere se restare da una padrone, guardavano se il cucchiaio nel piatto di zuppa restava in piedi, o cadeva. Nel primo caso si sarebbero fermati! Significava che ce n’era da mangiare!”
Siamo nel bosco, in un colle di detriti e fossili, davanti alla catena del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Un torrente cristallino taglia gelido le pendici di terra e fogliame del colle. Tutti i versanti del colle sono ripidi e franosi, ricoperti di carpini bianchi e neri, frassini, castagni, aceri, rovere, noccioli. L’obiettivo è quello di abbattere alcune piante storte e malate, cercando di non causare troppi danni, e soprattutto non incastrare alberi tagliati e alberi in piedi tra loro.
Quella del boscaiolo è da sempre considerata una faccenda pericolosa ed esaltante, simile in questo alla caccia, generalmente ristretta al genere maschile, tramontata come il braccio di ferro, in una civiltà ormai quasi in disuso, e rimpiazzata da tecniche intensive, meccanizzate e desertificanti.
Non siamo degli esperti del settore e quindi muoviamo i ciocchi troppe volte, ci stanchiamo per operazioni di riordino quasi del tutto inutili, spostiamo e rispostiamo cataste, ramaglia e radici. Il più, comunque, come in montagna, è non farsi male!
Il grande faggio sbagliato
Con un bell’albero abbattuto, ben tagliato, senza intoppi, nelle piccole pause di silenzio del motore della motosega, uno si sente al posto giusto nel momento giusto: padrone del proprio destino! Una poiana s’invola con le correnti calde, un picchio tambureggia, qualche capriolo pesta il tappeto di foglie secche a poca distanza, il campanile del paese manda dodici rintocchi. Eh già, come si sta bene qui. E poi tutta una serie di considerazioni sulla vita autentica, sui veri valori dell’uomo, sulla società che non ha capito nulla, sui giovani, ecc ecc. Tutto è scritto esattamente come uno se lo immagina.
Eppure, nel lato più ombroso del bosco, quasi al buio completo, su un risalto di terra, si staglia un enorme faggio. La grande beffa è che il tronco sorge a meno di un passo dal nostro confine, quindi è di altri!
Pensa che sfortuna!
In questi casi, per le piante contese, in tempi recenti si crea una specie di ping pong tra i proprietari (che in genere non si parlano): “È mio? È tuo? È tuo? È mio?” Questo per lo meno è quello che accade per piante poste in luoghi isolati, lontano dalla vista delle case, in quei terreni di cui uno si scorda volentieri: ripidi, franosi, bui, più simili al lupo che all’uomo.
E quel faggio, divenuto ormai troppo grosso per essere tagliato da due boscaioli della domenica, è uno scandalo! “Ma come è possibile che lo abbiano fatto crescere così tanto? Andava tagliato per tempo! Quello impedisce a tutti gli altri alberi del bosco di diventare grandi al punto giusto per la stufa!”
Credo che la sorpresa e il disagio che crea la vista di quel faggio per un contadino (mi si passi qui semplicemente questo termine per indicare un generico contadino del Novecento) sia simile a quella generata dai primi neri avvistati nelle Alpi. Il razzismo, in certi territori, sorge da cose molto banali, come dimensioni, colori, fisionomie conturbanti o paurose: appunto il grande faggio nel bosco buio, o il wucumprà che suona al campanello.
Quelli che hanno studiato, ovvero coloro che preferiscono l’avanzata della selva sui bei prati sfalciati, ”gli alberi fin dentro casa” e, per giunta, decidono quali piante tagliare e quali no, contro ogni logica rurale d’un tempo, sono la causa di tutti i mali!
Seguite il ragionamento.
Le cose sono sempre state fatte secondo “natura”: le piante più vecchie venivano tagliate, le giovani crescevano, le foglie si raccoglievano e si usavano nelle stalle, la legna secca a terra era praticamente inesistente, il lupo non c’era e, soprattutto, tutti i terreni con le pendenze migliori erano prati pieni di fiori!
Così facevano i nostri veci.
Ora, che i veci quasi non ci sono più: boscaglia, alberi enormi che cascano con la burrasca, selve ovunque, fossi, canali pieni di terra, sassi e alberi come dighe. E poi, per giunta, a quelli che ancora si ostinano a lavorare la terra, come ad esempio i boscaioli, gli danno l’obbligo di togliere tutte le notti il cavo a sbalzo dal monte, perché sennò ci muore a fette il gufo reale! Alla malora!
C’è una specie di divisione netta tra ambientalisti/cittadini e montanari/locali, dove i primi sono a favore del bell’albero, del bosco selvaggio e del gufo reale, ed i secondi invece sono quelli che abitano i luoghi e li vedono morire. Finzioni.
Se da un lato infatti è vero che la perdita di prati corrisponde alla perdita di biodiversità, esattamente come la perdita di boschi in certe condizioni, è altrettanto vero che la montagna è stata abbandonata, specialmente nel Bellunese, in favore di un impiego, uno stipendio, una vita migliore, e, non da ultimo, perché la montagna bellunese è ostile.
Politiche economiche fatte sulla pelle della povera gente? Chi voleva che il contadino diventasse un operaio? Ci hanno preso in giro? Può darsi!
Ma è anche vero che di quel benessere minimo, barattato per i “bei monti”, per circa tre generazioni abbiamo usufruito: mia nonna guarda il suo paese al di là dal fiume (circa 5 chilometri in linea d’aria) come io guardo a New York, con la stessa lontananza.
La Valle del Mis, stretto canale florido, coltivato e sorridente, si è trasformata negli anni ’60 in un lago artificiale per la centrale idroelettrica, per tutte le nostre belle serate a guardare la TV, a festeggiare Capodanno o accendere le luci di Natale. A cosa rinunciamo? Io, per il mio piccolo Clan, non saprei che scegliere.
Non tutte le contraddizioni sono uguali
Ci sono contraddizioni e contraddizioni, credo. Noialtri boscaioli della domenica ci rimuginiamo su.
Il mio compare, per esempio, memore dei tempi in cui per scaldarsi in inverno dovevano accontentarsi di quello che lasciava il padrone, e cioè le zópe (i ceppi) degli alberi tagliati, liberandoli dalla terra con ore di sforzi, un faggio che va alla malora come quello (cioè che diventa troppo grosso) è una bella beffa!
Per me, invece, quell’albero è intoccabile, padrone indiscusso di tutta la nostra terra, esattamente come un uragano in mare, o un temporale in alta quota, o il vento di pianura, o il gufo reale nelle rupi. La storia e la scienza ci possono aiutare per dirimere le nostre questioni; ma in fin dei conti sono le contraddizioni irrisolte che dobbiamo preoccuparci di proteggere: sono il sale, il sangue della vita, il meglio delle nostre tre generazioni!
È evidente che non tutte le contraddizioni sono uguali: si danno casi, per esempio, di ambientalisti reazionari, libertari machisti, naturalisti in autostrada, cacciatori con le jeep…
In certi luoghi si fanno chilometri e ore di viaggio per sparare a un leone, assistere al foliage o abbracciare un albero liscio. I gusti sono gusti, ma non trovo in questo nulla da proteggere.
Mi riferisco alla linea del tempo, mai perenne, caduca come lo sono tutte le vite, che collega gli avi e i posteri nel tempo, ed il semplice passatempo remoto di guardare insieme alle cose della natura, come ad esempio ad un “faggio sbagliato” sapendo nel frattempo che tanto sbagliato non è. Ognuno la sera chiude gli occhi da solo, ma con mille compagni buoni nella testa.
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Mi piace gironzolare, sono una guida ambientale escursionistica e scrivo. La mia terra natale è Belluno, una terra misteriosa, angusta e selvaggia. Per questo motivo, sogno di accompagnare le persone in quei posti.
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