Un libro per riflettere sulle capacità mentali utili ad affrontare il mondo nel prossimo futuro, e la montagna, dove affrontare l’incertezza è la norma, può essere un valido terreno d’allenamento.
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Pietro Trabucchi, Nelle tempeste del futuro
Raccontando la sua angosciosa scalata con Zappelli nell’imbuto franoso del Pilier d’Angle, Walter Bonatti affermò che “le frane si sentono con il sangue e con il cuore ancor prima che con l’udito”. L’argomento è di grande attualità dopo la tragedia del crollo in Marmolada. Quel giorno Bonatti aveva tutte le carte in regola e la parete quasi ostentava il suo tallone d’Achille. Eppure tornò indietro. “Quel meraviglioso congegno che è la psiche “, raccontò, “è capace d’inventare tutto, persino i miracoli. Ora, per vie misteriose, ha creato in me impulsi emotivi tali da rendere la paura irresistibile”. Si può forse escludere che la paura possa essere considerata, in alcuni casi, preveggenza e ci possa garantire la sopravvivenza?
L’argomento viene trattato in un recente saggio di Pietro Trabucchi, “Nelle tempeste del futuro” (Corbaccio, 143 pagine, 16,60 euro), in cui l’autore focalizza alcune capacità mentali che possono rivelarsi fondamentali in situazioni estreme come quella del fatale crollo della Marmolada.
Autore di “Resisto dunque sono”, “Perseverare è umano”, e altri longseller in cui esplora da psicologo tutto quanto riguarda motivazione e gestione dello stress incontrando atleti che si preparano a sfide straordinarie, Trabucchi con il contributo di Federico Fubini, giornalista ed editorialista di economia, si interroga su come riuscire a superare le resistenze attraverso un lavoro individuale e collettivo.
Per imparare a tollerare l’incertezza crescente in tutti i campi, rimanendo focalizzati e motivati, osserva Trabucchi, è necessario prendere atto che la cultura attuale ha prodotto un declino delle nostre capacità psicologiche. Verissimo. Fragilità emotiva e impulsività sono all’origine quotidianamente di delitti efferati come si legge sui giornali: dai femminicidi alle incontrollate sparatorie di apparentemente tranquilli cittadini che sospettano di innocenti ragazzi e li fanno fuori in due e due quattro.
Incontestabile è, per dirla con Trabucchi, che “pretesa di soddisfazione immediata dal mondo esterno, ego ipertrofico e lamentosità uniti a bassa tolleranza della frustrazione diventino elementi costanti del vivere”.
Disciplinare il rettile che è in noi
Tra le soluzioni proposte dall’autore colpisce nel secondo capitolo del libro l’invito a disciplinare il rettile interiore e il conseguente benvenuto nella “società rettiliana” con riferimento alle strutture più arcaiche del nostro cervello.
Risposte emotive velocissime, automatiche, potenti ma rigide sarebbero infatti quelle innescate dal cervello rettiliano. Ne consegue, spiega l’autore, che più saremo riflessivi e più rischieremo di perdere la vita.
Non c’è motivo di dubitarne. Si può e si deve sottoscrivere con Trabucchi che “occorre saper governare le nostre parti impulsive e iper-emotive che la società attuale invece stimola continuamente”. E anche che occorre “percepire con chiarezza i propri limiti, accettandoli come punto di partenza e non come vincolo schiacciante”.
Un’ipotesi, come si legge in “Walter Bonatti. L’uomo e il mito” (Priuli&Verlucca, 2011) è che la paura, così come la volontà fortissima di sopravvivere a ogni costo, faccia parte di un codice scritto nella parte più profonda del nostro cervello rettile. Una parte del cervello che in Bonatti era particolarmente attiva e ben integrata con il resto della sua persona.
“Non siamo rettili”, si legge nel libro citato, “ma se non abbiamo accesso al nostro retaggio rettile non possiamo sentirci pienamente umani”. E a spiegarlo a detta degli autori è lo psicologo americano Peter Levine che, studiando e comparando i comportamenti animali, è giunto a formulare un metodo per curare i disturbi da stress-post traumatico.
Roberto Serafin
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