Le ultime ore di guerra riservano sempre le atrocità più esemplari. Marco Triches nel nostro viaggio nello spazio e nel tempo nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi ci conduce in una triste tappa nel Bosco delle castagne il 10 marzo 1945.
Ascolta qui la puntata del podcast con il racconto di Marco Triches
A Franco, Nino, Penna, Carnera, Fiore, Nino, Portos, il Francese, Montagna, Rampa, Giuseppe
Le ultime ore di una guerra
O montagne della consolazione! Fatemi dormire tranquillo, stanotte, nella mia casa. Che io possa contemplare gli alberi del viottolo e credere che nulla di male sia fatto dai padri e dai figli. Che le notizie che qui giungono non siano vere e che i prati che salgono a voi siano per sempre il mare placido di stelle del giorno in cui sono nati.
Tu prova ad avere un nemico nella testa per lungo tempo, a covarlo, farlo crescere, ogni tanto dimenticarlo per poi riprenderlo ancora più forte. (Noi montanari siamo campioni nel serbar rancore). Ti guardano tutti! “Guarda quello lì che corre, guarda che corno! C’ha un nemico in testa!”
Corri a testa bassa per colpirlo in pieno, come un ariete, il tuo nemico! Viaggi nel deserto, scavalchi, navighi dall’altro capo del mondo, per poterlo atterrare e poi ti accorgi che non c’è più, è sparito, e il paesaggio dove ti trovi è come se fosse distrutto da un vulcano.
Nuto Revelli, nelle giornate della liberazione di Cuneo, con la ritirata dell’esercito nazista, vide i nemici diventare amici, fascisti camaleonti trasformarsi in partigiani, bandiere e “urrà!” a profusione, “Viva gli alleati! A morte il Duce!” E sopravvisse. Oggi per noi Nuto Revelli è un inventore, colui che rappresentò i vinti, i morti e i sopravvissuti della guerra, i contadini, le donne delle campagne e delle montagne piemontesi. E forse le ingiustizie di Cuneo furono la condizione sine qua non del suo futuro lavoro: quello che per noi è oggi uno dei migliori esempi di cronaca della nostra storia nazionale.
“L’urlo della colonna”1, gli alpini ritornano dalla Russia a piedi nel freddo. Le caserme e i reggimenti allo sbando nel 1943, poi l’8 settembre, l’Armistizio e la fuga, “Si salvi chi può!”, chi torna a casa, chi nelle città, molti vengono catturati dai tedeschi e altri salgono in montagna, per cominciare la variegata lotta partigiana.
Seguono tormenti, miseria e morte.
La società civile è spaccata: chi collabora con l’invasore e denuncia i ribelli, chi si astiene, chi aiuta i partigiani senza troppo darlo a vedere, chi si intruppa controvoglia nelle squadre della Todt, per fabbricare ponti, gallerie, fortificazioni, chi si schiera e si dà alla macchia. In ogni caso, per ogni atto di sabotaggio, sono i civili soprattutto a pagare: incendi, deportazioni, fucilazioni.
Proclami da prefetture e podestà: “Pentitevi!”, “Ricredetevi!”, “Non cascate nel tranello dei ribelli!” Un tedesco vale 10, 20, 50 italiani. Un repubblichino, in onor del Duce, al massimo 5!
“Sergent magiù, ghe riavarem a baita?”2
A Belluno soprattutto arrivano i bolognesi. Tanto che al giorno d’oggi la città, medaglia d’oro alla Resistenza, ospita un parco comunale intitolato alla città di Bologna. Harold William Tilman, maggiore dell’esercito inglese, aviotrasportato nel bellunese per collaborare con i partigiani, disse a proposito:
“C’erano molti bolognesi tra i partigiani nella zona di Belluno. Essi sembravano avere in Italia la stessa reputazione che gli Scozzesi hanno all’estero. In qualunque posto tu vada in Italia, ti capiterà sempre di trovare un bolognese capace di portare a termine qualsiasi cosa debba essere fatta, prima di te.”
Ogni 25 aprile mi sento nervoso. Sono in attesa che qualcosa cambi radicalmente il corso della mia giornata. Solo a Torino, nel corso di qualche corteo, ho assaporato la possibilità (vana, utopica, sentimentale) che da un momento all’altro potessimo tutti arrivare fino in cielo.
Belluno si è liberata il 2 maggio. Come la storia ci insegna (non da ultimo Anna Frank), le ultime ore di una guerra riservano sempre le atrocità più esemplari.
Il bosco delle castagne
È per questo motivo che il presente viaggio nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, arrivato alla sua decima tappa, per la ricorrenza del 10 marzo 1945 e delle impiccagioni del bosco delle castagne, termina con il resoconto di quelle morti.
Siamo a pochi chilometri dal centro cittadino, su un promontorio che separa la valle del Piave dalle pendici delle montagne, in direzione Nord Ovest. Il bosco delle castagne rappresenta la cerniera ideale tra la periferia (per quanto sia piuttosto una periferia astratta nel caso di Belluno) e i paesi pedemontani; un luogo agricolo, accessibile da vari sentieri, ma al tempo stesso ameno. Possiede il silenzio, la calma e l’immobilità apparente dei posti lontani. Circondato da pendii di bosco misto di latifoglie, non è un caso che l’eccezionalità della presenza di un certo numero di castagni ne sia valso il toponimo. E i castagni sono alberi robusti, coltivati e quindi liberi di sviluppare chiome ampie e rami “forzuti” fin dalle quote più basse.
Purtroppo ben adatti, per questo motivo, a dare il giro alla corda.
Non c’è consolazione nel mondo, non c’è consolazione nei monti, non c’è terra sotto i piedi.
Quel 10 marzo 1945 a Belluno
Tratto da Le popolazioni del bellunese nella guerra di liberazione 1943-1945, Luigi Boschis, Istituto storico bellunese della Resistenza, Feltre 1986.
“Il giorno 7 marzo, un ufficiale, con un sottufficiale ed un soldato delle SS, che accompagnavano un reparto di truppa alle consuete esercitazioni, avevano scorto un palo recante un cartello con la scritta: ‘Morte a Hitler – Morte a Mussolini’. Andarono a strapparlo via, provocando così lo scoppio di una mina, che dilacerò i loro corpi. Gli avanzi ne vennero subito raccolti e portati via, seguendo non la strada verso San Sebastiano, ma il sentieruolo che scende alla dritta il versante meridionale del colle, raggiungendo la stradetta campestre di Travazzoi.
Riferisco il racconto fatto da Rodolfo Dalvit, autista che si trovava a servizio dei tedeschi, ma aderente in segreto ai partigiani.
Egli dice che, appena avvenuta la morte dei tre militari, il «maggiore delle SS Schröder, comandante il battaglione di polizia di stanza a Belluno, convocò gli ufficiali e propose loro di vendicare i morti mediante l’uccisione, sul luogo ove erano caduti, di cinquanta italiani. Tutti approvarono, il maggiore si recò dal tenente delle SS Georg Karl, per farsi consegnare cinquanta arrestati politici. Il Karl gli rispose di non avere a sua disposizione cinquanta detenuti; parecchi dovevano ancora venire interrogati, ne avrebbe consegnati dieci, tutti riconosciuti quali partigiani. Sembra che fosse stato chiesto per telefono, a Bolzano, anche il parere del maggiore delle SS Thyrolf, il quale non si fece pregare per acconsentire.
Da alcuni giorni io ero stato allontanato dagli uffici, perché sospetto di attività partigiana, ma il giorno 10 marzo il maresciallo delle SS Jabel, mi chiamò e mi fece andare alla polizia germanica, dicendomi che dovevo condurlo a trasportare due detenuti alla caserma del 5° artiglieria. Li prelevarono infatti dalle celle della caserma ‘Jacopo Tasso’, li fecero salire nella topolino da me guidata ed insieme con lo Jabel li trasportai nell’altra caserma, dove, invece di mandarli nelle celle, li fecero sostare nel corpo di guardia, ed a me ordinarono di aspettare.
Il maresciallo si recò al comando del battaglione e dopo un quarto d’ora fece ritorno, accompagnato da alcuni sottufficiali, che tenevano in mano delle cordicelle. Lo Jabel lesse da un foglio i nomi di dieci partigiani, i quali man mano venivano fatti uscire dalle celle, e come arrivavano, le mani venivano loro legate dietro la schiena. Per ultimo, venne condotto fuori anche il noto patriota ‘Montagna’ (dottor Mario Pasi, da Ravenna, trentaduenne), il quale non poteva reggersi in piedi, avendo una gamba che sera cancrenata, in seguito alle torture subite durante gli interrogatori. Lo caricarono sull’autovettura guidata da me e fecero uscire gli altri nel cortile, uno dietro l’altro, in fila.
Colà aspettavano, inquadrati, i militari della VII compagnia del battaglione Schröder, in tenuta da guerra, muniti di armi automatiche.
Il ‘Montagna’, allo scorgere quei preparativi, si rivolse a me, che ben conosceva, e mi domandò: ‘Dimmi, ci portano a fucilare?’
Per fargli coraggio, io gli risposi di non saper nulla, ma di credere che trasferissero tutti alle carceri di Baldenich. Frattanto i soldati circondavano i prigionieri, sempre in fila, la topolino con il ‘Montagna’ lo Jabel e me, in coda. Io pure, a quella insolita manovra, mi misi in apprensione, tanto più che mi ero accorto come i soldati non risparmiassero me, che conoscevano, nelle loro sataniche celie e nei grossolani motteggi. Che io pure dovessi condividere la sorte dei prigionieri? I tedeschi rumoreggiavano e ghignavano; tra gli insulti, distinguevo le parole: ‘Bella fine bandit’; forse intendevano esprimere un augurio funebre. Il ‘Montagna’ allora mi disse:
‘Tu hai voluto farmi coraggio! Ti ringrazio. Vedi, ci conducono alla morte. Per me, la fucilazione ormai non fa che accelerare la mia agonia. Le torture che ho sofferte, oltre a rovinarmi le gambe, hanno rovinato i miei organi interni, continuo a rimettere sangue dalla bocca, sento di essere offeso interiormente. Tu lo sai, non sono un vile, non ho temuto le torture e non temo la morte, mi dispiace di non poter terminare la mia missione. Mi strugge il cuore vedere questi altri giovanotti così sani morire a questo modo.’
Il corteo si componeva di un plotone in testa, due cordoni ai lati, un altro plotone in coda, nel mezzo i condannati in fila, uno dietro l’altro; uscito dalla caserma, s’avviò a lento passo lungo la strada nazionale, verso la frazione di Bolzano bellunese. Dopo il convento dei Cappuccini, svoltò a destra, indi a sinistra, per una strada campestre. Erano le 18.
Frattanto il ‘Montagna’ mi chiese un pezzo di carta e una matita per scrivere due righe a sua madre; feci per dargliele, ma lo Jabel mi strappò tutto dalla mano. Allora il Dottore disse:
‘Se tu sopravvivi, ti prego di dire a mia madre che io muoio per un ideale, per il quale ho combattuto e sofferto. Che non pianga, né si disperi, muoio sereno, perché ho sempre fatto il mio dovere. Se qualcuno avesse dovuto soffrire in conseguenza del mio arresto, che mi perdoni, perché ho fatto quanto era umanamente possibile per non far vittime. A te, Dalvit, chiedo il favore di difendere la mia memoria quando non sarò più’.
Io guardavo intorno, pensando a cercare il modo di scappare con la macchina, ma la scorta continuava a tenersi strettamente in contatto e non allentava la vigilanza. A Travazzoi i tedeschi si fermarono per chiedere una scala a pioli, ma il contadino, indovinando l’uso che ne volevano fare, disse di non averne. Ne trovarono li presso una, appoggiata a un pergolato di viti, e la presero. Giunti che furono all’ultima casa rustica a cui conduceva la strada, si fermarono; il ‘Montagna’ viene tolto dalla autovettura e fatto sdraiare sulla scala a pioli, mentre quattro fra i patrioti venivano slegati. Egli mi fece segno di andargli vicino e mi disse: ‘C’impiccano! Vedi la scala! Ti prego, supplica il capitano che mi conceda la grazia di venire fucilato, digli che sono un ufficiale e che tutti siamo soldati. Fa presente questa nostra volontà’. Io mi avvicinai al capitano: era il comandante della VII compagnia SS battaglione Schröder e gli riferii quella domanda; egli inveì contro di me e mi scacciò. Lo Jabel gli domandò che cosa io volessi, e saputolo si avvicinò al ‘Montagna’ e gli disse, in tedesco: ‘Bandito porco, prendi questo’ e gli sferrò un calcio talmente violento nel ventre, che all’infelice uscì il sangue dalla bocca.
I quattro giovani, che erano stati slegati portare la scala sulla quale stava adagiato l’infermo, si avviarono, mentre io ebbi l’ordine di rimanere lì con la vettura. La colonna incominciò a salire per l’erto sentiero che porta in cima al colle e a un certo punto si fermò: il ‘Montagna’ venne caricato sulla schiena d’uno dei patrioti, forse perché riusciva troppo malagevole portarlo sulla scala; poi riprese la salita, finché che la perdetti di vista. Dalla casa uscì una contadina e più tardi un uomo, ed insieme cercammo di vedere che cosa facessero i tedeschi sul colle; ma, causa la lontananza e l’intrico dei rami degli alberi, non si distinguevano che delle figure in moto da un tronco all’altro. Un’ora dura la salita di quel nuovo Calvario. Verso le 19:30 i tedeschi fecero ritorno. Tutto era finito.
Al ritorno nel suo ufficio, lo Jabel si accorse di aver confuso, per un caso di omonimia, due patrioti, e di averne impiccato uno al posto dell’altro. Allora si recò nuovamente alla caserma del 5° Artiglieria, fece uscire il patriota che era sfuggito alla morte e lo fucilò là nel cortile, portando così a undici le vittime di questa rappresaglia.
Ad effettuare le esecuzioni furono i militari della VII compagnia battaglione Schröder, composta quasi interamente di altoatesini; il loro capitano venne catturato dalla Brigata ‘Val Cordevole’ il 28 aprile 1945 e giustiziato a Selva di Cadore.”
1 Nuto Revelli
2 Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve
RUBRICA A CURA DI:
Mi piace gironzolare, sono una guida ambientale escursionistica e scrivo. La mia terra natale è Belluno, una terra misteriosa, angusta e selvaggia. Per questo motivo, sogno di accompagnare le persone in quei posti.
Scheda partner
Storia da pelle d’oca. Il racconto che qui avete riportato differisce però da quello di Wikipedia, dove si parla di 8 tedeschi morti (4 subito e 4 successivamente per le ferite) e di foto di Hitler, e solo di Hitler, messe nel poligono di tiro con la scritta in tedesco “Zigklt gut”, ovvero “mirate bene”. Difficile ricostruire con precisione quei fatti. Per chi vuole vedere i volti di quei giovani e lo schifo della guerra, ecco una raccapricciante galleria fotografica: https://phaidra.cab.unipd.it/detail/o:6186
Mio padre, Bebbino Valmassoni (ATTILA) preso ed arrestato a Pian De Noai Vallesella di Cadore, ad opera di una spia di Tai di Cadore. Portato a Pieve di Cadore in Magnifica comunità, venne torturato a sangue e (non parlò). Io stesso suo figlio vidi le cicatrici sulla schiena di mio padre che mia madre mi fece vedere.. in una mattina in cui mio padre (autista di pulman) era raramente a casa a riposare. Mio padre non mi ha raccontato nulla di quello che è successo.. disse solo che non si sarebbe meravigliato di coloro che nella” tortura avessero parlato”. Fu liberato nella famosa “beffa di Baldenic”, quando ad aprire la cella i compagni gli dissero.. forza andiamo.. lui cercò di alzarsi ma finì lungo disteso a terra. Poi con l’aiuto dei compagni lo aiutarono ad alzarsi ed andare fin su sul monte SERVA, dove prima di morire voglio fare lo stesso sentiero.Sono vivo grazie a MANDOLESI e a DE LUCA da Borca di Cadore che conservo la lettera di condoglianze e gratitudine per le belle parole su mio Padre.
Andrea Valmassoni il figlio.