Il nuovo libro di Alessandro Gogna è un affascinante excursus attraverso l’avventura dell’alpinismo: un viaggio dal punto di vista di uno dei suoi protagonisti.
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Non è il tipo Alessandro Gogna da aspirare a primati da Guinness, ma è indubbio che possa essere lui, tra i grandi alpinisti, quello che in mezzo secolo più ha raccontato la montagna in libri, traduzioni, contributi di vario genere. Per non tenere conto delle sue conferenze, sempre brillanti e partecipate, della frenetica attività sul web, delle battaglie per l’ambiente compiute in nome di Mountain Wilderness di cui è garante internazionale. Tutte le sue scalate cartacee sono puntualmente documentate in un archivio davvero sterminato.
Unico rivale in un’eventuale gara a chi lascia più scritti ai posteri potrebbe risultare, chi può dirlo?, l’amico Reinhold Messner che oltre a sfornare libri da un po’ di tempo in qua ama destreggiarsi con la telecamera. Ora viene da domandarsi che posizione occupi nella bibliografia di Gogna il nuovissimo volume “Visione verticale” (La grande avventura dell’alpinismo) che in questi giorni Laterza manda sugli scaffali (228 pagine, 18 euro). Per saperlo basterebbe consultare il suo sito dove elenca anche le 500 prime ascensioni compiute nelle Alpi “scrivendo” su calcari e graniti la storia del suo alpinismo di ricerca che lo rende unico e forse inimitabile.
La bella notizia è che dalla sua factory milanese sulle sponde del Naviglio Grande dove il grande alpinista genovese vive con la moglie Guya, da questo moderno antro colmo di libri dove ogni giorno viene messo in rete l’ormai celeberrimo Gogna Blog, spunta questo mirabile excursus sull’”avventura alpinismo” dai primordi del diciottesimo secolo ai prodigi mozzafiato del moderno free solo.
Ne avrebbe da raccontare Gogna quale indiscusso protagonista dell’alpinismo moderno. Eppure, nel suo nuovo libro, di autobiografico sembra esserci ben poco anche se in quasi tutti i 15 capitoli l’autore adotta la prima persona. L’unica giustificazione possibile è che l’autore non voglia prevaricare con una presenza ingombrante. Non sarebbe nel suo stile. Il fatto è che la storia dell’alpinismo ha voluto scriverla a modo suo, scegliendo fior da fiore secondo le sue simpatie. Le pagine più riuscite (quasi tutte) risentono della sua impronta di uomo d’avventura e gli incontri con eccelsi colleghi alpinisti (Cassin, Messner, Casarotto, Motti tanto per esemplificare) sono dettati dalle amicizie e, si direbbe, dal cuore.
Non è poi da escludere, conoscendone il carattere portato all’autocritica, che di un particolare Gogna si renda conto: invecchiando, che orrore, l’alpinista tende a raccontarsi un po’ troppo. Di qui la scelta di spostare costantemente l’attenzione su altri personaggi, a cominciare da Hermann Bull di cui traccia un magistrale ritratto. Si aggiunga anche il problema di non ripetersi. Quello che ha scritto in precedenza, in altri libri, deve rimanere lì, a cominciare da quei “Cento nuovi mattini” uscito in tempi in cui l’arrampicata libera era veramente tale e non era ancora nata l’arrampicata sportiva. Un classico.
In tal modo il senso dell’alpinismo secondo Gogna, debolezze e incongruenze comprese, viene pian piano svelandosi di pagina in pagina insieme con quella sua “visione verticale” della vita che fin da piccolo assaporò assieme al suono delle campane che annunciavano nel 1954 la vittoria italiana al K2. Alpinismo verticalmente demodé come alcuni snobisticamente vorrebbero? Può darsi, ma di un particolare Gogna è convinto: di progressi ne ha comunque fatti parecchi l’alpinismo ed è più che mai in espansione in tutto il mondo. E’ raddoppiato a suo avviso, e fino a prova contraria, il numero degli appassionati che compiono imprese superbe in Himalaya, Karakorum, Antartide, Ande, come dimostra l’American Alpine Journal che annualmente ne descrive le gesta e che da librino striminzito si è trasformato quasi in una Treccani.
E che fine hanno fatto le gare a chi arriva primo ad aprire una via nuova, Cassin contro Gervasutti, gli Scoiattoli contro gli svizzeri, Maestri contro Bonatti? Un retaggio del passato di sicuro. Eppure oggi si continuano a fabbricare miti ed eroi, vivi o morti che siano. Dopotutto qualche forma di competizione esiste ancora da dare in pasto a uffici stampa e giornalisti cosiddetti specializzati.
E’ accertato che l’austriaco Hermann Buhl, l’eroe del Nanga Parbat, resta l’eroe prediletto si Gogna, esempio di un alpinismo simpatico, portavoce di una montagna da conoscere e da vincere, ma prima ancora da amare c con la quale convivere. Perlomeno con cui convivere finché la vita ci sorride, tenuto conto dei rischi che si corrono da soli o in compagnia scalando montagne. Come già fece Buhl sul Nanga Parbat e sul Badile, Gogna non esitò a misurarsi anche da solo con la montagna (Walker al Bianco, via dei Francesi al Rosa…) eppure non si ritiene un solitario e trova inconcepibile che si possa resistere da soli per settimane in ambienti ostili come fece l’amico Renato Casarotto rimettendoci la pelle.
Impossibile infine per Gogna non misurarsi con Walter Bonatti, suo idolo e maestro, un nome che ricorre in varie pagine di questo libro con la puntuale descrizione del suo capolavoro, quella via nuova, diretta, invernale e solitaria alla nord del Cervino nel 1965. Maestro in understatement, Gogna evita di far notare che lui, in fatto di capolavori sul Cervino non è secondo a nessuno. La Bonatti sulla nord è ormai un classico, vabbé, ma ci sono voluti 45 anni perché nel 2014 una cordata italiana vincesse finalmente il Naso di Z’Mutt, il più grande strapiombo delle Alpi Occidentali superato da Gogna nel 1969 con il fido compagno Leo Cerruti. Un’impresa grandiosa che i media hanno appena sfiorato a differenza di tutto quanto riguarda Bonatti, insuperabile anche nel promuovere le sue imprese.
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