A cosa serve l’alpinismo? Questa è una domanda nata assieme alla stessa parola che definisce questa attività umana. La pubblicazione del lavoro del professor Bocchiola è l’occasione per un’ulteriore riflessione intorno a questo tema che sicuramente continuerà ad accompagnare gli alpinisti.
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In questi giorni il professor Andrea Bocchiola, filosofo e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana nonché membro del Club Alpino Accademico Italiano, ha portato a termine una scalata importante. Lo ha fatto sulle montagne di carta, questa volta, in sintonia con la sua personale e rigorosa ricerca alpinistica sulle montagne quelle vere, penetrando in profondità nella mente talvolta imperscrutabile degli alpinisti. Ed ecco il suo libro appena arrivato sugli scaffali (Dell’alpinismo, Tararà, 83 pagine, 10 euro) esaminare negli otto capitoli una notevole quantità di aspetti salienti dell’alpinismo di ieri e di oggi. MountCity gli ha rivolto una serie di domande a consuntivo della sua opera, tutte per sua ammissione piuttosto impegnative ma non tali da metterlo in imbarazzo.
Questa, per esempio: “Davvero l’alpinismo è una pratica rischiosa, irragionevole e per molti versi assurda come sostiene Enrico Camanni nella prefazione?”. “L’amico Enrico”, è stata la risposta del professor Bocchiola, “ha assolutamente ragione. Ma questa assoluta assurdità dell’alpinismo non è quello che la rende così profondamente poetica e tragica? Se l’alpinismo servisse a qualcosa, vorrebbe dire che quel qualcosa è più importante dell’alpinismo. Che l’alpinismo è solo un mezzo. E invece io penso che l’alpinismo sia un grande esercizio di libertà dalla schiavitù dell’utile. In fondo, scusate, quale sarebbe l’utilità dell’utile?”. Eppure nel rispondere a un’altra domanda Bocchiola è sembrato correggere il tiro. Contrordine: l’alpinismo a qualcosa allora serve. “La psicoanalisi che pratico come lavoro e alcune questioni filosofiche che mi coinvolgono, mi sono diventate assai più chiare grazie all’alpinismo”, ha ammesso.
Allo sguardo del filoso non è sfuggito un altro importante aspetto dell’alpinismo. Si è forse perso quel taglio scientifico-cultural-naturalistico con cui nel 1863 il Club alpino italiano prese vita con lo scopo di far conoscere la montagna? Qui il professor Bocchiola è stato categorico. “Non si pratica l’alpinismo”, ha detto, “a scopi conoscitivi e non lo si pratica a scopo terapeutico, come se fosse uno psicodramma. Al riguardo, da alpinista e da psicoanalista, non credo che abbia alcun senso parlare di montagna terapia, il che non significa che la montagna non faccia star bene, ma non ha nulla a che fare con la terapia. La stessa pretesa di una capacità conoscitiva dell’alpinismo ne contraddice la pratica, subordinandola ad un esito che non la riguarda. E’ come quando si va a teatro a vedere uno spettacolo per cogliere ‘un messaggio’. Lo spettacolo o vale per se stesso o se vale per il messaggio allora non conta nulla, perché si finisce con il ‘leggerlo’, abbandonando alla irrilevanza ciò che si mostra sulla scena”. Va da se che sarebbe da non perdere in MountCity la lunga intervista al professor Bocchiola, ma soprattutto che imperdibile va considerato questo suo saggio scritto per sua ammissione in un momento per lui abbastanza gioioso, di ormai molti anni fa. Particolare importante: i primi sei capitoli rispecchiano il percorso di una salita, dall’avvicinamento al momento in cui, tornati a casa, si raccoglie l’esperienza fatta in un qualche tipo di scrittura. A tutti buona lettura. (Serafin)
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