L’abitudine di porre croci di vetta, nata con il giubileo del 1900 fa discutere da molto e molto è stato detto. Di fatto le croci delle vette fanno parte della storia del nostro alpinismo, al pari delle “conquiste” per la patria o dei record di salita. Dietro a molte di queste croci, come quella sulla Dufour, ci sono storie da conoscere…
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Che cosa sarebbero le Alpi senza le croci di vetta? Di questo argomento si è discusso e ancora si discute a lungo. L’amico Paolo Paci, alpinista e scrittore che si ritiene figlio più del consumismo che del materialismo storico, ricorda che qualcuno vagheggiò in passato di sostituire falce e martello alle croci; e qualcun altro (Jacopo Merizzi e compagnia) portò una statua di Buddha in cima al Pizzo Badile che qualcun altro ritenne giusto far precipitare a valle. A indurre Paci ad affrontare questo (spinoso) argomento è stata una mail inviatagli da Stefano Marelli, socio del CAI di Cantù, che voleva raccontargli la storia della croce sulla Punta Dufour. Non una Croce qualsiasi, ammesso che si possa usare questo termine. No, si parla della più alta del Monte Rosa a quota 4634 metri. Una croce tutta d’alluminio che, incastonata al centro, porta una riproduzione della Madonnina del Duomo di Milano. E che nel 1964 fu portata a Roma per ricevere a benedizione di Paolo VI.
“Sono gli anni ’50”, scrive dunque Marelli rivolgendosi a Paolo Paci di cui gli è evidentemente nota l’attività di storico dell’alpinismo espressa in una serie di libri estremamente documentati, “e in quegli anni ‘50 un gruppo di amici dell’oratorio San Paolo di Cantù sotto la guida del loro giovane sacerdote, don Nicola Daverio, appassionato di montagna, fondano il GEAM-Gruppo Edelweiss Amici della Montagna. Un’iniziativa che porterà a tutti una grande passione per la montagna poi trasmessa a tanti noi figli e che ha portato alcuni di loro a diventare veri alpinisti: il più forte, Giorgio Brianzi, morì proprio sul Rosa, sulla parete est nel gennaio del 1981. Nel 1963 questo gruppo di amici ebbe la forza di pensare qualcosa di straordinario per allora: realizzare una croce da portare e montare su una delle cime più alte, la Dufour”.
“Pensarono a tutto”, continua a raccontare Marelli. “La progettazione fu affidata a un giovane studente di architettura sempre del gruppo, la realizzazione ad alcuni artigiani di Cantù. Raccolsero quei pochi soldi che potevano per spedire alcuni di loro a Roma per raccogliere la benedizione di Papa Paolo VI. E poi nell’estate del ’64 via, in macchina, in tenda: senza fondi e senza particolari attrezzature, questo gruppo di giovani amici riuscì davvero a portare la croce a 4634 metri. Quella croce è lassù da allora, l’hanno vista tutti gli alpinisti che sono saliti sulla Dufour e a casa mia e nelle case di diverse famiglie di Cantù ogni tanto riecheggia ancora quella leggenda. In quel gruppo, tra gli altri, c’erano anche mio papà e mio zio. Nel 2015 ci sono salito anch’io in punta Dufour, l’avevo promesso a mio zio pochi giorni prima che morisse e stavamo chiacchierando del Monte Rosa. Quella leggenda ora è parte di me”.
Questo il racconto di Stefano Marelli. Poi Stefano ha inviato a Paci la pubblicazione fatta dal GEAM in occasione del cinquantenario. Un libretto pieno di atmosfera e di storie d’epoca lo definisce l’amico Paci, con gli alpinisti, le officine e la passione per il lavoro, le gioie e le belle ingenuità dell’associazionismo. (Serafin)
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