Argòrda è una di quelle parole che riportano ai tempi cadenzati dalle attività legate alla terra. Paolo Crosa Lenz ce la spiega regalandoci anche i suoi ricordi personali di bambino, quando le fienagioni erano fatte a mano e coinvolgevano tutta la comunità. Oggi ci sono le macchine e le previsioni meteo, ma in questo maggio piovoso ad esempio la raccolta del fieno ha rischiato di non aver i giorni utili per essere portata a termine…
Paolo Crosa Lenz
Giornalista e scrittore nativo di Ornavasso e di origine walser, ha pubblicato oltre 60 libri e saggi dedicati al territorio della Val d’Ossola e delle Alpi del Verbano.
Cosa vuol dire fare l’argòrda?
L’argòrda, nei dialetti ossolani, è il secondo taglio di fieno. Nella valle del Toce e sulle basse valli laterali i tagli del fieno prezioso, da accumulare nei fienili per l’alimentazione invernale delle mucche, erano tre: il fèn (maggese) in maggio, l’argòrda (agostano) in luglio e agosto e la tarsòla (terzaruolo) in settembre. I vecchi ricordano che in annate particolarmente favorevoli per il fortunato equilibrio di sole e pioggia si tagliava a ridosso dei laghi anche la quartarola in ottobre, un’erba alta meno di 10 cm. Questo però raramente.
I tre tagli avvenivano solo fino ai 700-800 m di quota sui prati al sulìv (a solatìo). Sopra si facevano solo due tagli. Oltre i 1500 m si faceva una taglio solo: la parola argòrda era sconosciuta.
In alto però gli inverni sono più lunghi e rigidi, per questo durante e dopo il taglio del fieno di luglio – agosto la comunità provvedeva alla raccolta del fieno selvatico o erba di rupe. Era un lavoro che impegnava tutti, ma proprio tutti: uomini, donne, vecchi e bambini. Un’erba tagliata tra le rocce e sui dirupi più impervi, portata al villaggio in appositi gerli a maglia larga dopo averla fatta rotolare a valle in balle legata con tecniche sconosciute in pianura. Questo ad Agaro, Salecchio, Formazzae in tutti gli alti villaggi walser.
Ricordi di fienagioni
Quando ero ragazzo, all’alpe eravamo una frotta di sei bambini. Io ero il maggiore e per questo mia mamma mi portava al piano in luglio a fare argòrda, un’ora di cammino la mattina e la sera. Per tenermi “in buona” metteva al fresco sotto un albero una bottiglietta di aranciata che doveva durare tutto il giorno.
Mi raccontava che, quando lei era bambina, stava facendo argòrda e vedeva sulla montagna gli alpi che bruciavano durante i rastrellamenti dell’estate 1944; si chiedeva quando sarebbe toccato alla baita e stalla della sua famiglia.
Un tempo l’argòrda veniva lavorata tutta a mano: gli uomini a tagliare con la ranza (la falce fienaia), le donne e i bambini a spantigare, voltare, raccogliere, ammucchiare e poi portare a casa sui carri trainati dall’asino.
Ci volevano almeno quattro giorni. Le previsioni meteo non c’erano, si suppliva con le preghiere. Oggi l’argòrda viene tagliata con le macchine e i contadini hanno solo bisogno di due giorni di bel tempo per portare a casa l’erba secca. Quei due giorni che lo scorso maggio non ci sono stati e il fieno ha rischiato di seccare in piedi.
Paolo Crosa Lenz
da “Lepontica” numero 40, luglio 2024
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