Il cammino continua: Gianluca Migliavacca, quattordici giorni dopo la prima tappa, ha proseguito il viaggio verso nord accompagnato da Carmelo Vanadia. Con questo racconto ci accompagna in continue e inaspettate scoperte tra connessioni, sospensioni e contrasti.

Qui puoi ascoltare la puntata del podcast con il bel racconto della tappa

La cadenza dei quattordici giorni è legge e regola l’orologio biologico di questo periodo. Un’attesa che ci fa giungere ad una sella per traguardarne interrogativamente un’altra: alla sella abbiamo la certezza della contabilità dei contagi e di vite mancate e la titubanza dei prossimi quattordici giorni e del futuro che ci aspetta.

Diciotto Maggio è il nuovo limite di un mondo reale che legifera, altri limiti arriveranno. Ma, per noi che camminiamo, è quello che permette il superamento dei confini comunali. E allora, già ritrovata la città fatta di montagna avvolta in un silenzio assordante interrotto solo dai rumori della sua manutenzione (il decespugliatore, la scopa del portinaio, lo sferragliare del tram), ci diamo appuntamento al ponte sul Lambro. Tra brani della stessa città: un campo coltivato e strada radiale d’innesto.

Un po’ assonnati, è l’alba a darci il viatico del cammino e lo scrosciare dell’acqua del fiume a coccolarci. Il campo coltivato mostra già delle belle plantule e, chinato al suo bordo, raccolgo un grande ciottolo che pulisco dalla terra in una pozzanghera li vicino. È verde, è un serpentino della Valmalenco: “che ci fai qui?”, ci diciamo sorridendo tanto per canzonarci. Sappiamo chi ti ha trascinato e levigato, conosciamo la tua storia, il tuo viaggio. Sappiamo che sei una delle chiavi di accesso alla lettura di questo territorio metropolitano. E con te il fiume che scorre sotto l’argine: insieme avete effettuato gran parte del viaggio e anch’esso è una trama di molteplici storie che arrivano da nord, le più variegate. Legate al concetto di essere “corridoio” di vita, di ecologia, di energia pura sfruttata dal progresso dell’area brianzola e milanese. Di essere diventato  cloaca dell’eccesso e fonte di lotte per la salvaguardia sua e del territorio lambito dalle sue acque. E, come tutti i fiumi, è un nastro di aneddoti.

È questa la premessa e la tensione nel comporre un sentiero “inaspettato” che ci fa puntare il periscopio verso nord ed iniziare il cammino con la cadenza concessa: con un ciottolo in tasca e un orecchio al fiume. Grazie a loro possiamo passare da tutte le porte del territorio e con lentezza riconnettere tutto ciò che sembra sparito, fuori dai recinti mentali odierni: lockdown, stabilità di connessione, user & password, smart + working, web + room…. E sarà paradossale, ed estraniante al tempo stesso, come tale cadenza di segregazione con mille attenzioni si intervallerà con la giornata di cammino, di lentezza, verso nord, verso il Passo dello Spluga.

È questo il progetto: riconnettere la Metropoli alle Alpi con un ciottolo in tasca, con un fiume o un lago al fianco, con degli amici che ci seguono. In cammino allora! E che la sequenza di queste parole possa diventare una guida, appunto, inaspettata.

Ai margini della metropoli esistono dei luoghi e degli intervalli che ritmicamente, come un sasso gettato nello stagno, sono ritrovabili precisamente e che ne evidenziano la storia, il senso dell’insediamento, la sua crescita spesso incurante di un passato, anche recente, di relazione e di economia. Il sottopasso è uno di questi intervalli. Caratterizzato da graffiti (anche interessanti), lampade rotte e odore di liquami umani, risulta essere l’unico pertugio tra parti che, prima della “strada a scorrimento veloce” (e, ovviamente, ad alto tasso di traffico), ragionavano con trame unificanti: rogge, coltivi con cippi o gelsi indicatori di proprietà, sterrate interpoderali. Ma, lasciata alle spalle la “quattrocorsie” e la palazzata che la costeggia, ecco che il ritmo della città ci porta a camminare tra vecchie vie acciottolate e con losanghe in pietra per i carri, porzioni di insediamenti rurali che enucleano e pongono in risalto una chiesa del XII secolo, correttamente orientata, proporzionata e Rossa di mattoni. È il baricentro della trama di un tessuto urbano in cui sono ancora evidenti le misure non solo metriche, ma anche formali: la chiesa sta al municipio e al monumento. La casa del dottore o del direttore della banca convive con la casa con ballatoio. Il naviglio con la sua Riviera, San Mamete e l’Ombra (un po’ di sacro e profano), il Lazzaretto con il Busch. La Curt de l’America è lì. Come sono lì anche i racconti e gli aneddoti di Pierino Consonni (le anguille della Martesana e il pellegrinaggio verso Caravaggio, Don Enrico Bigatti e le Aquile Randagie…) e le tante storie raccolte da Ferdi Scala nel suo libro “Crescenzago e via Padova” edito dalla Graphot. 

Poi, zigzagando tra le ville e le cascine di Crescenzago, incrociamo la Casa della Carità di Don Colmegna, la Ex Magneti Marelli con il matitone antiaereo e la torre dell’acqua (in demolizione), il quartiere Adriano e la sua lottizzazione forsennata tra vari periodi di crisi, il progetto Lacittaintorno, gli orti della Bergamella e la lotta dei cittadini per l’interramento dei cavi di alta tensione. 

È così che si consuma questo primo tratto verso Monza: ad ogni passo l’itineranza ci stimola a soffermarci, a fare il punto e a concatenare territorio e paesaggio, ad indagare. Ma, ci siamo detti: qui ci vorrebbe una bussola, una bussola magica. Non solo con la ghiera graduata degli assi cardinali ma anche con quella degli assi concettuali e temporali. Magari esistesse… Forse esiste una cosa simile ma come disciplina: la geografia. Tanto vituperata perché implica strumenti cognitivi (di solito lenti e ponderati) a noi torna non solo utile, ma necessaria. Ma da sola non basta: l’esplorazione dei “sentieri inaspettati” richiede anche la felicità, la costanza e la gioia del cammino, la riconnessione tra corpo e territorio e l’ingresso nel mondo della “GEOFORIA”!

Qui il video realizzato il 18 maggio per Sentieri Metropolitani (parte 1)

Si tratta di qualche grado. Una rotazione di piani, storici e insediativi: “Qui, ora, in questo punto, sotto la mia impronta, sento una storia in verticale…”. Rogge, coltivi e cascine hanno un loro paradigma. Grandi complessi industriali, e il volano edificato ad essi collegato, un altro. La cascina del Bosco di Crescenzago, la Gatti e la Parpagliona da una parte. Ex Magneti Marelli e Falck dall’altra. Tra loro la crescita industriale, il dopoguerra, il boom economico e demografico: il mineralizzarsi degli spazi di un territorio agricolo e di un paesaggio millenario consolidato. Ecco che quei gradi di rotazione della nostra bussola, non poca roba, chiariscono lo sfasamento tra centuriazione agraria e le rette dell’insediamento contemporaneo. “…la dove c’era l’erba ora c’è… una cittàaaa”, viene da fischiettarla, vero? E così, con questo ritornello,  dagli orti e dal parco della Bergamella giungiamo alla cascina Gatti e alla sua Santa Maria Nascente. È un luogo lombardo, lo si sente attraverso il bigotto disegno della piazza, i mattoni della vecchia cascina e la facciata dell’oratorio parrocchiale a tessere di mosaico grigio che raffigura dei gatti che suonano degli strumenti musicali. Quest’ultima la guardiamo così, in tralice. E poi la facciamo passare come edilizia pedagogica: apprezzabile nel suo essere ingenua e sincera.

Passa un trattore a ricordare il luogo e quel poco di lavoro che gli resta da fare tra cave, tangenziali e strade di accesso ai condomini. E il periodo di blocco totale ce lo ricorda il gestore di una trattoria dove le strisce della vecchia bocciofila sono state trasformate in parcheggio: oggi è il primo giorno di apertura e nella conversazione si misura la fatica del periodo e l’incertezza della possibile ripresa. Piano, piano, la sua conversazione si anima e si fa concitata: si rimpiangono Berlinguer e, da non credere, D’Alema per giungere, con un carpiato mirabolante segno del periodo, al generale Pappalardo e ai gilet arancioni. Con un sorriso imbarazzato e un’espressione falsamente comprensiva, alla chetichella, lo lasciamo. 

Fiancheggiamo la roboante tangenziale ed evitiamo il cul-de-sac della Porta Meridionale del Parco Media Valle del Lambro di via Pisa: il Villaggio CECA e la cascina Parpagliona ci attendono a dimostrare lo sfasamento dei piani già menzionato. Ma qui è la grazia del progetto a ingentilirlo: quel richiamo che i progettisti BBPR (Banfi, Barbiano di Belgioioso, Perassutti e Rogers) riformulano nella tipologia abitativa del villaggio CECA con l’intento di accogliere nelle piccole case bifamiliari coloro che provenivano da cascine lontane per lavorare nelle fabbriche sestesi. E così la Parpagliona e le CECA si ammiccano tra loro nella verticalità delle finestre, nel richiamo delle persiane in legno, nel giardino da coltivare a orto, nel disporre i volumi per favorire le relazioni. E, alzata la testa dopo questi pensieri sulle accortezze progettuali, veniamo ricondotti al rumore e alle fiamme della fabbrica, della Falck. È lì, dietro la Parpagliona, che troneggia il T3 con le fauci aperte: qui il confronto non è delicato come su una planimetria o disquisendo di tipologie abitative. Qui il confronto è estremo, violento e paradossale, dove è la cascina a uscirne vincente: con la sua madonnina in edicola è ancora abitata e ha al suo fianco una bel orto, ampio e coltivato. Il T3, a differenza, è monumento arrugginito di un’industria che fu e di politiche che furono e che stentano a riprendersi. Non è un inno alla cascina, al ruralismo, ma un rilievo alla politica sghemba, tardiva, che non sta al passo della metropoli che prosegue nella sua corsa incocciando, di tanto in tanto, su una preesistenza come la Parpagliona o una presenza come San Giorgio alle Ferriere, che raccontano e mettono in fila la vita. San Giorgio con il monumento ai martiri della Resistenza e il Villaggio Falck alla Pelucca, si appoggiano agli assi funzionali alla vita della fabbrica, raccontando con la toponomastica la provenienza dei primi operai (via Brescia, via Bergamo, via Lecco) e, nelle rappresentazioni sacre, la vita ritmata tra la sirena della fabbrica e la famiglia: dalla miniera al crogiolo, da padre in figlio,  accompagnati dalla mano di un Dio rassicurante. 

Viale Italia, a Sesto San Giovanni, dove a centinaia le corriere giungevano puntuali dalle valli lombarde e scaricavano manodopera, ora è desolato. Dal Villaggio Falck ci affacciamo sul viale e troviamo altre parole scritte dalle forme dei parallelepipedi de “I Giardini del Parnaso” e del centro commerciale Vulcano. Condomini e centro commerciale sono da anni in fiduciosa attesa dello sviluppo del masterplan di Renzo Piano e della linea metropolitana. O molto probabilmente, scusate, se ne fottono. Si potrebbe percepire che già l’intento progettuale era quello di caratterizzarli come satelliti autonomi collegati al senso dell’abitare solo grazie a peduncoli e bretelle autostradali. No dai, non è possibile, dice sgomento Carmelo. Bah.

Qui il video realizzato il 18 maggio per Sentieri Metropolitani (parte 2)

È ancora mattina, siamo all’apertura del centro commerciale, e dopo la misurazione della febbre, solo due anziani riassaporano una breve sgambata tra le vetrine che stanno riaprendo dopo il blocco totale: anche la macchina del caffè non ha voglia e fa sgorgare un caffè dal sapore del Lambro. Subito fuori seguiamo le indicazioni del Parco Media Valle del Lambro (PMVL) e, nel pieno ritmo metropolitano di intervalli e luoghi, grazie al cavalcavia su Lambro e tangenziale, giungiamo alla Collina dei Conigli. Il panorama, anche quello sonoro, è molto interessante e la nostra bussola, sopra questa collina, impazza indecisa da una parte all’altra degli assi cardinali. È la marogna sottostante proveniente dalla bonifica della ex acciaieria a dire quali assi esistono in questa terra.

Ma quello della bussola non è l’unico segnale: da questo punto in poi è anche il vibrare del nostro ciottolo di serpentino a condurci. Da San Maurizio al Lambro, verso nord, percorriamo l’argine sinistro del fiume tra poligono del giappone e strombazzare degli autoarticolati dell’autostrada: ecco che un nuovo sottopasso, ulteriore intervallo, ci permette di superare la A4. Ed è qui che incontriamo un pittore che affresca le sue pareti in cemento armato: chissà come ci è capitato… 

È la ruota arrugginita del vecchio mulino e quella della macina in puddinga a dirci che siamo ad Occhiate. E l’attiguo depuratore conferma la regola che la sua presenza fastidiosa vada messa ai margini dei centri abitati, là dove ci sono le cascine. Là nella terra di nessuno, tra Sesto San Giovanni, Brugherio, Cologno Monzese e Monza. Se quella ruota e quella macina potessero parlare… In effetti lo fanno in occasione della festa del Mulino che da 42 anni si svolge a settembre (ma per questo 2020 non sappiamo…).

Stiamo entrando nel territorio di Monza, nella sua zona industriale e artigianale, per forza legata, nei tempi, allo scorrere del Lambro. Campi coltivati e tintorie in lotta, carrozzieri, start-up e circoli Arci: con il passare del tempo e con la mutazione produttiva, l’energia del fiume è sempre meno necessaria. 

Anche il Canale Villoresi, in quel punto in cui si incrocia con il Lambro, è inspiegabile se dissociato dalla enorme rete irrigua che ha fatto la ricchezza della “piana secca”. Nel quadro dell’interdipendenza produttiva non si poteva immaginare un’industria pesante senza agricoltura: anche la corona industriale del nord milanese aveva bisogno di foraggio, latte e formaggi. Questo è un altro passaggio chiave, oltrepassato il quale, sempre al fianco del fiume e con il vibrare del ciottolo di serpentino, si entra nel primo anello industriale monzese con lo scalo ferroviario, il Binario 7 e, vicina, la lapide che ne ricorda le tetre vicende. Così è incisa:

Generosamente a poco più di ventanni qui vennero sublimati dal cruente sacrificio di sangue i nobili sentimenti patriottici di BENINCASA SALVATRICE- per la libertà della patria Dicembre 1944

Sentiamo le campane del duomo. Siamo arrivati.

Qui il video realizzato il 18 maggio per Sentieri Metropolitani (parte 3)

Il cammino continua…

21 Luglio 2020
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Trekking Italia

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