Un libro riporta alla memoria una spedizione sovietica del 1989 quasi caduta in oblio: Kangchenjunga 1989

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Obiettivo: compiere la traversata delle quattro cime del Kangchenjunga, l’8000 più orientale della terra. L’impresa venne compiuta da una spedizione sovietica in quel remoto 1989 in cui crollò il muro di Berlino. Tutti bravissimi e preparati e nessuno che si sia fatto un graffio. Trovate il racconto nel nuovissimo libro Kangchenjunga 1989 – La grande traversata” (MonteRosa edizioni, 240 pagine con foto a colori, 14,50 euro) di un certo Vasilij Senatorov, un giornalista appassionato di alpinismo che accompagnò la spedizione in qualità di reporter ufficiale. 

Copertina di Kangchenjunga 1989
Copertina
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Il libro si dilunga sulle difficoltà burocratiche e logistiche che era necessario affrontare in Unione Sovietica nel momento in cui veniva approvata l’organizzazione di una spedizione così complessa, sulla selezione degli atleti, sull’approvvigionamento di attrezzature e cibi e molto altro ancora. Tutto minuziosamente tradotto da Iya Shakirzyanova e Paolo Ascenzi che da tempo alterna l’attività di storico dell’alpinismo, autore di importanti ricerche, al suo ruolo di Professore Ordinario di Biochimica presso il Dipartimento di Scienze, Università Roma Tre.

Paolo Ascenzi traduttore di Kangchenjunga 1989
Paolo Ascenzi

L’aspetto più originale dell’impresa di trent’anni fa è che ognuno dei ventidue alpinisti raggiunse almeno una volta almeno una delle vette. Eppure c’è poco da scherzare col Kangch che un tempo si riteneva la vetta più alta dell’Himalaya. Non avrà la fama sinistra del Nanga Parbat, ma sono in parecchi tra gli scalatori di punta ad averci lasciato le penne. Non va dimenticato infatti che tra i “cinque tesori della grande neve” (questo il significato del termine Kangchenjunga) perse la vita la signora degli ottomila Wanda Rutkiewicz e mai più si rivide il simpatico, indimenticabile “petit prince de l’Himalaya” Benoit Chamoux dopo avere vagato da solo tra i ghiacci fino allo sfinimento totale.

La mancanza di drammi e dunque di pathos è probabilmente all’origine del silenzio ingiustamente calato su una spedizione tanto qualificata e organizzata. Si apprende infatti dallo stesso autore, che l’esperienza passò quasi inosservata a seguito della scarsa divulgazione da parte degli organi di stampa sovietici. Che in tutt’altre faccende dovevano risultare affacendati considerato il terremoto che scuoteva il Cremlino. Sta di fatto che il libro ufficiale della spedizione apparve in Russia nel 1992 e non giunse mai in Occidente. 

Se la lacuna è stata colmata lo si deve oggi alla piccola casa editrice MonteRosa edizioni le cui briglie sono coraggiosamente tenute da Simonetta Radice, alpinista e scrittrice di classe. Ebbero in effetti torto i cosiddetti esperti a sottovalutare l’impresa in Europa Occidentale e negli Stati Uniti. A questa esperienza partecipò tra l’altro anche il compianto Anatolij Bukreev, che aprì una nuova via per la vetta senza fare uso di ossigeno supplementare. 

Simonetta Radice, editrice con MonteRosa Edizioni di Kangchenjunga 1989
Simonetta Radice

L’impressione, se ci viene concesso, è che l’opera sia indubbiamente un po’ datata e povera di adernalina. Ma va detto che, coerentemente con la cultura dell’epoca, il racconto non sottolinea tanto le virtù e i meriti dei singoli alpinisti, bensì descrive l’impresa come un successo collettivo, pur non mancando di riportare le inevitabili rivalità e i contrasti interni alla squadra.

Quanto alla totale mancanza di drammi, sarà pur vero che le emozioni servono a capire il mistero della vita e della morte e che senza emozioni l’alpinismo si rivela poca cosa. Eppure l’ambiente ostile del Kangch riserva non poche trappole mortali. Per fare un esempio, una raffica di vento, a quanto ci rammenta Senatorov, può sollevare uno zaino di 15 chili come fosse una pallina da ping pong, In ogni modo la traversata delle quattro cime rimane una tappa importante nell’alpinismo himalayano che in quegli anni ottanta stava perdendo fascino trasformandosi, sono parole di Messner, in un alpinismo “da pista”, il commercio imperando anche a quota ottomila.  E poi in quel 1989 non è vero che tutto filasse via liscio. L’annata si rivelò particolarmente sfortunata. Furono 24 gli alpinisti a perdere la vita sulle vette del Nepal, pace all’anima loro. (Serafin)

4 Settembre 2020
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MountCity

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