Scarpette e “bagna caüda” nel dopoguerra per un grande dell’alpinismo che se ne è andato. Andrea Mellano ci lascia la testimonianza di un uomo semplice e generoso che fece le prime esperienze sulla piemontese Rocca Sbarua. Ecco il ricordo di Roberto Serafin
Andrea Mellano tra scarpette e bagna caüda
Se ne è andato nella torrida estate del 2024 quasi al traguardo dei novant’anni. Ed è difficile rassegnarsi alla scomparsa di Andrea Mellano, un torinese davvero speciale. È stato accademico del CAI, primo scalatore italiano con Romano Perego a salire le tre nord più celebrate (Eiger, Cervino e Sperone Walker alle Jorasses), inventore e organizzatore con Emanuele Cassarà della prima gara di arrampicata svoltasi nel 1985 a Bardonecchia. Con lui se ne è andato un pezzo di storia dell’alpinismo.
“Negli anni cinquanta eravamo tutti ragazzi ricchi di entusiasmo”, raccontò. “Tra noi torinesi e i pinerolesi si era creato alla palestra della Rocca Sbarua che frequentavamo per allenarci un clima di armonia vigile, tra scarpette e bagna caüda. Poiché bisogna riconoscere che esisteva, non tanto nascosto, un clima di competizione nella ricerca di nuovi percorsi o nell’abbassare i tempi sulle vie conosciute”.
Infondeva fiducia anche nella vita quotidiana
Ricco di entusiasmo l’amico Andrea è rimasto fino all’ultimo. In quegli anni ottanta, entrambi ormai avviati alla terza età, fummo costretti ad affrontare uno stesso complicato, ma salvifico intervento chirurgico. Andrea andò per primo sotto i ferri e fece di tutto per sdrammatizzare l’esperienza.
Al telefono cercò di tranquillizzarmi da quel capocordata che era e io gliene sono grato. Mai a quanto dicono che in parete tradisse qualche briciolo d’inquietudine. E anche nella vita di tutti i giorni il suo atteggiamento pacato ammantato d’ironia infondeva fiducia.
L’alpinismo di Andrea Mellano degli anni sessanta
Furono anni d’intensa attività quei mitici sessanta, quando Mellano mise a punto la sua classe arrampicatoria sulla Rocca Sbarua. L’attrezzatura era tradizionale: scarponi, corde di canapa, chiodi e moschettoni di acciaio. Alla Rocca i torinesi tracciarono numerosi itinerari su torrioni ancora inesplorati. Ai percorsi classici delle vie “Normale”, “Gervasutti”, “Rivero”, “Bianciotto”, “Cinquetti” si aggiunsero le vie dei “Pinerolesi”, “Torinesi”, “Lo Spigolo” e i Torrioni: “Il Bimbo”, “ il Grigio”, “del Nonno” e le “Placche Gialle”, capolavoro di Guido Rossa, il grande alpinista e sindacalista barbaramente ucciso nel 1979 a Genova dai sicari delle Br.
“Le condizioni economiche della maggior parte della nostra generazione del dopoguerra”, mi raccontò fra un treno e l’altro alla Stazione di Porta Nuova di Torino dove è stata scattata una delle foto qui pubblicate, “non erano brillanti e l’approvvigionamento del materiale e dell’attrezzatura era un problema serio al quale ognuno cercava di ovviare producendo in proprio chiodi, staffe, cunei di legno, favoriti anche dalla professione di molti di noi, artigiani e operai”.
L’evento che forse gli è rimasto più nel cuore rimane nel 1962 la prima scalata italiana alla parete nord dell’Eiger. “E’ stato un exploit che ci ha segnato in maniera positiva”, ricordava. Su questo aspetto non ha mai avuto dubbi anche se mettere insieme di punto in bianco, su quella famigerata e per loro inesplorata parete due cordate suscitò qualche perplessità.
Il tricolore comunque sventolò in vetta l’11 agosto 1962. Con Mellano c’erano Armando Aste, Pierlorenzo Acquistapace, Gildo Airoldi, Romano Perego e Franco Solina. Walter Bonatti che prima di loro era stato costretto a battere in ritirata fece dell’ironia sui loro cinque giorni trascorsi in parete. Che fossero andati a pascolare le capre? Per saperne di più vale la pensa di leggere il libro in cui Giovanni Capra racconta le varie tappe della scalata, intitolato “Due cordate per una parete. 1962: la prima italiana sulla Nord dell’Eiger” Corbaccio, 2006.
“Inizialmente da alpinisti rivali, come eravamo tutti a quei tempi, siamo diventati dopo l’esperienza all’Eiger un gruppo molto speciale. Quella fu una delle volte in cui puntai sull’exploit sportivo perché ero abbastanza competitivo, pur essendo conscio di non essere un alpinista di grandissimo livello. Però l’andare all’Eiger rispecchiava questo mio modo di non prendermi troppo sul serio”.
Mellano aveva in tasca un diploma ai tempi dell’Eiger. Più tardi negli anni settanta si laureò in architettura facendo tutto il percorso da fabbro ad architetto. Era diventato accademico da un paio d’anni e a quel glorioso sodalizio rimase affezionato fino alla fine. L’altra sua grande avventura fu nel 64 sulla Cassin alla Ovest di Lavaredo quando venne colpito in pieno da un fulmine. Gli fu difficile evitare di mostrarsi traumatizzato dall’esperienza. “Ero già sposato con figlie piccole”, raccontò, “e ho rischiato in modo totalmente egoista come sanno essere egoisti gli alpinisti”.
Roberto Serafin
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