In parziale dissonanza rispetto al titolo della rubrica, devo ammettere che il Ru Neuf (nella Valle del Gran San Bernardo ndr) non è un anello. Eppure è un cammino significativo, sia in senso assoluto – perché fa parte della via Francigena – sia personale, quindi lo condivido volentieri. Sono cresciuta in Valle d’Aosta, a Saint Pierre, solo fino alle scuole elementari, ma ho continuato negli anni successivi a tornare per trascorrere lunghissime estati.
Il suo percorso fa parte della via Francigena, cioè quell’insieme di strade che dalla Francia conduce a Roma: nel medioevo, la visita alla tomba dell’apostolo Pietro era una delle treperegrinationes maiores, insieme a Santiago e alla Terra Santa, e così è nato il reticolo di percorsi che collega l’Europa occidentale con quella del sud. Il viaggio dei pellegrini è un cammino, e ha dei tempi suoi, perché tutto ciò che avviene mentre i piedi si muovono ha un senso, più ancora del giungere alla meta fine a sé stesso. Lo scendere dentro di sé, il dare attenzione a ciò che si muove nell’animo è facilitato dal ritmo del passo e dalla presenza silenziosa della natura. Silenziosa solo per chi non sa ascoltare, si intende, perché di suoni il bosco è pieno, e il Ru Neuf ancora di più, dato che ha come compagna l’acqua che scorre.
Il Ru Neuf può essere percorso tutto di seguito (sono circa tredici chilometri) oppure a tratti, perché molti sono i varchi in cui ci si può inserire.
Amo il Ru, il profumo dei boschi che attraversa e il suono dell’acqua. D’altronde quello dei pellegrini è il mio stesso modo di andare in montagna: il cammino che porta all’interno, a illuminare qualcosa che di solito rimane nel buio, una meditazione in movimento. Pur avendo un padre alpinista che mi ha sempre guidato per rifugi, io della montagna amo più che altro come mi obbliga a cercare il respiro e il passo: se sono nervosa o agitata mi taglia il fiato e non me lo restituisce fino a che non ascolto ciò che mi chiede, e cioè di permettere al corpo di trovare il suo ritmo, senza seguire quello degli altri.
In “Fronte di scavo” ho raccontato di Ettore, un ingegnere milanese che arriva sul cantiere del Bianco, all’inizio degli anni sessanta, con una modalità prestazionale rispetto alla montagna. Anche lui imparerà ad ascoltarsi, grazie anche alla presenza del capocantiere valdostano, Hervé: «In montagna il passo lo dà il più lento, gli altri lo seguono», aveva detto Hervé al primo tornante, e io avevo iniziato spingendo, perché volevo dimostrare di essere in grado. Ma ora il sentiero cominciava a tirare e sentii un sibilo nel petto. «Deve trovare il suo, di passo», mi aveva detto anche.
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L’autrice
Sara Loffredi è nata a Milano nel 1978. Ha pubblicato per Einaudi, Piemme, Rizzoli e molti suoi racconti sono stati ospitati su riviste e opere collettanee. Il suo ultimo romanzo (Fronte di scavo, Einaudi 2020), che sta raccogliendo tanti e meritati apprezzamenti, racconta di una delle più grandi operazioni di chirurgia geografica della storia: il tunnel del Monte Bianco.
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