Nonostante la sempre minore permanenza al suolo della neve sotto i 2000 metri e richieste di moratoria per nuovi impianti di sci e ampliamenti di quelli esistenti come quella di Mountain Wilderness, continuano pubblici finanziamenti e lavori per migliorare e potenziare le strutture. Anche in località dove pensare un futuro legato allo sci è, eufemisticamente, anacronistico. Sarebbe invece auspicabile la transizione verso un modello di economia sociale e solidale che faccia i conti con le reali condizioni ambientali e climatiche dei territori.

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Un manifestazione organizzata dal Coordinamento salviamo il Monte San Primo. Il San Primo in Lombardia è uno dei luoghi a quote basse dove anacronisticamente si vorrebbe riattivare un’area sciabile. Qui articolo che ne parla (foto via bellagiosanprimo.com)

Basta ampliamenti delle aree sciabili

Una moratoria per ampliamenti e potenziamenti di aree sciabili? Lo chiede a tutto l’arco politico che governa le Alpi l’associazione ambientalista Mountain Wilderness. Fatica sprecata, se ci viene concesso. Dopo una prolungata chiusura, la località di Carona nell’alta valle Brembana si unisce con Foppolo dando vita a un comprensorio con 35 chilometri di piste. Un esempio di mancata sostenibilità o un soffio di speranza per coloro che cercano di costruire una montagna resiliente e vivente di fronte al cambiamento climatico? 

Il futuro delle località di media montagna resta oggetto di grande preoccupazione, con forti questioni sociali, economiche e ambientali. Lo zero termico oltre i quattromila metri nel mese di novembre non è certo di buon auspicio per la stagione invernale che sta per iniziare. Capita dunque a proposito la strategia di Mountain Wilderness Italia. Il buon esempio viene dalla Svizzera. Nella Confederazione si disincentivano in tutti i modi i nuovi impianti sotto i 1800 metri di quota, come ci ricorda Luca Rota nel suo pregevole blog.

Si spende denaro pubblico per accanimenti senza futuro

Un esempio di ampliamento è rappresentato per l’appunto da Foppolo e Carona, le due stazioni sciistiche dell’alta valle Brembana. Che sono di nuovo unite come era avvenuto in passato, come se niente di spiacevole fosse nel frattempo successo. Dopo anni di difficoltà e la prolungata chiusura degli impianti di Carona, il Comune ha affidato a un imprenditore privato, per la stagione 2024-2025, la stazione sciistica. Il nuovo comprensorio offre 35 chilometri di pista con la possibilità per lo sciatore di utilizzare un solo skipass.

Dovunque c’è una gran fretta di intervenire nei modi meno sostenibili e spendendo centinaia di milioni pescati nelle tasche dei contribuenti. La velocità del riscaldamento globale mette con le spalle al muro comuni e imprenditori e la decisione di riaprire costringe a trovare soluzioni a brevissimo termine. 

Vero è che la capacità di stare in montagna deve sapersi adattare alle condizioni offerte dalla natura. Ma non sembra che sia così sulle montagne italiane, alpine e appenniniche, dove non sono le nevicate che continuano a fioccare (magari fosse così) bensì gli ingenti finanziamenti a favore di progetti di sviluppo dei comprensori turistici, addirittura di riattivazioni, come si è visto, di stazioni in difficoltà o ferme da anni. Accanimento terapeutico bello e buono. Gli interventi sono quasi tutti concernenti località al di sotto della fatidica quota di 2000 metri indicata dai report scientifici come quella che potrà garantire qualche lustro in più di attività sciistica. Sempre che l’evoluzione del cambiamento climatico non peggiori gli effetti più di quanto sta drammaticamente avvenendo.

La Regione Lombardia è di quelle che probabilmente investono più milioni sugli impianti. “Dalle Orobie alle Prealpi”, scrive sul quotidiano Il Giorno Federico Magni, “si finanziano infrastrutture sotto i duemila metri di altitudine. E le Olimpiadi di Milano-Cortina potrebbero dare un’accelerata”. Ma come comportarsi se la permanenza della neve al suolo non è più garantita?

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Impianti di risalita di Panarotta (foto TGR Trento)

Una conversione obbligata

Fondamentale sarebbe mantenere attrattivo e vivibile il territorio per tutto l’anno. Questa sembra anche la scelta compiuta suo malgrado dalla Panarotta, una storica località del Trentino un tempo famosa. Un modello di località da cui prendere esempio. 

Lassù già nel 2016 svincolarsi dal solo sviluppo impiantistico era percepito come una necessità. Per fortuna la località è da sempre una meta o un punto di partenza per ciclisti, escursionisti, scialpinisti. La storia del comprensorio sciistico ora sembra definitivamente giunta al capolinea. Il de profundis è suonato il 30 ottobre quando scadevano i termini per presentare i piani finanziari e di gestione da parte dei soggetti che si erano fatti avanti per prendere le redini della stazione. 

Il bando per la Panarotta prevedeva la conduzione degli impianti a fune, due tappeti mobili e l’impianto d’innevamento artificiale composto dalle condotte e dalle stazioni di pompaggio, con cinque cannoni sparaneve, vasche di carico, pompe, opere di presa su un torrente. Mica bazzecole. Il fatto che vi fossero tre soggetti interessati aveva lasciato ben sperare sulla possibilità che la nuova stagione invernale potesse vedere gli impianti nuovamente in funzione. 

Invece non sono arrivati né il piano industriale, relativo alla sostenibilità economico-finanziaria del progetto né alcuna proposta per la gestione invernale. Zero offerte pervenute. Ci sarà pure una logica in tutto ciò.

Ora alla Panarotta non resta che rassegnarsi a un inevitabile tramonto degli impianti di sci. Rimane la possibilità di passare attraverso una diversa vocazione turistica, legata alla natura e all’esperienza all’aria aperta. E la riconversione outdoor sembra più che mai il toccasana anche se ancora non si dispone di un modello generalizzato di transizione nell’ambiente montano con l’occhio rivolto a un’economia sociale e solidale. Cioè a un’economia che offra strumenti concreti per costruire modelli collettivi e soddisfare i bisogni delle popolazioni.

Roberto Serafin

13 Novembre 2024
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