Il racconto del viaggio di Franco Michieli attraverso le Alpi, un giovane di quarant’anni fa, diventa occasione per la condivisione di ideali con i giovani di oggi e l’invito a “partire a riconquistare il mondo da cui si cerca di tenerli lontani”.

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Moltissimi che ci ascoltano e ci leggono in questo sito non erano ancora nati quando nel 1981 Franco Michieli affrontò a piedi un’appassionante traversata delle Alpi, dal mar Ligure all’adriatico, scalando 25 vette importanti dell’arco alpino e mettendo alla prova, in quegli 81 giorni di fatiche con 20 chili di zaino sulle spalle, la sua  resistenza oltre alla tenuta, ben più precaria, dei suoi scarponi di cuoio che “scoppiarono” in vista della baia di Duino dove era fissato l’ideale traguardo. 

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Franco Michieli
In apertura: Michieli al tempo dell’attraversata delle Alpi

Come mai solo ora, quasi quarant’anni dopo, si è deciso a raccontarla in un libro per filo e per segno? Michieli si giustifica – ma sarà vero? – dicendo che da giovane gli riusciva difficile, quasi impossibile ricreare in un libro l’autenticità di quel vissuto. Di libri però nel frattempo ne ha scritti almeno una decina vincendo vari premi letterari e si è raccontato in centinaia di brillanti conferenze. Ciò non toglie che quell’avventura, a cui altre sono seguite come la traversata dei Pirenei e quella del Grande Nord senza bussole, satellitari e simili aggeggi, abbia lasciato un’impronta negli scritti in cui ha messo a fuoco la sua filosofia, teorizzando quell’arte di inselvatichirsi che ritiene indispensabile nel misurarsi con la wilderness integrale. A patto s’intende di possedere il suo spirito d’avventura e la sua preparazione anche psicologica. 

Insomma, adesso il libro finalmente c’è, imperdibile, e s’intitola con una certa enfasi “L’abbraccio selvatico delle Alpi” (Edizioni Ponte alle Grazie in collaborazione con il Club Alpino Italiano, 319 pagine,18 euro). Se fosse un romanzo lo si potrebbe definire “di formazione” e in effetti vi si rispecchiano le inquietudini di una generazione, quella che negli anni di piombo andava verso i vent’anni. Inquietudini più che giustificate, che il milanese Michieli, geologo, scrittore e oggi garante internazionale di Mountain Wilderness, condivide con la generazione di Greta Turnberg. E’ infatti alle ragazze e ai ragazzi del nuovo millennio che dedica questo libro e sarebbe importante / interessante che fossero soprattutto i giovani a ripercorrere pagina per pagina questo viaggio che a 19 anni l’autore giudicò necessario “per immergersi a lungo nell’ambiente e nel divenire della natura alpina e riuscire così a conoscere le reazioni reciproche capaci di nascere in quella convivenza”. 

Leggendo quanto racconta Michieli, ci si accorge che in quarant’anni niente è cambiato, anzi il mondo è andato sempre più a rotoli nella colpevole indifferenza di chi ci governa. Michieli e i suoi compagni di liceo, non tutti, capirono già allora che senza una correzione drastica di modelli economici e culturali si sarebbe arrivati (sic) “a una probabile estinzione di massa dei viventi”. Già sentite di recente queste parole? Oggi l’emergenza climatica viene giudicata, per certi versi, peggiore del covid-19 perché, oltre una certa soglia che è stata chiaramente indicata, è irreversibile. E perché non c’è (non può esserci) un “vaccino” che ci permette di continuare a vivere come sempre mettendoci però al riparo dal rischio.

Questo Michieli lo intuì nei remoti anni ottanta e l’uscita di questo libro ne è la migliore testimonianza. “Spero”, dice oggi, “che ciascuno delle vecchie generazioni ritrovi nella lettura di questo libro qualcosa delle aspirazioni di quei tempi. E che i giovani trovino conferma che anche loro possono partire a riconquistare il mondo da cui si cerca di tenerli lontani”. 

Comunque sia, quel ragazzo diciannovenne dopo aver sostenuto l’esame orale di maturità all’Einstein s’involò in un’afosa giornata di luglio dell’81 verso un’esperienza che non esitò a definire alternativa: tre mesi di immersione nella natura selvaggia sopravvivendo con mezzi minimi sia dal punto di vista dell’attrezzatura sia da quello finanziario. Se ci fosse stato il filosofo Serge Latouche avrebbe sicuramente esultato per questo esempio di decrescita felice. Benché le montagne fossero ormai zeppe di impianti a fune, Franco volle caparbiamente farsela tutta a piedi quella camminata di duemila chilometri. Rifiutandosi perfino di prendere un ascensore quando alla fine, affranto dalla fatica, scelse di dormire in una pensioncina anziché alla bell’e meglio sotto una tettoia e quei tre piani per salire in camera li fece per le scale. (Serafin)

15 Maggio 2020
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MountCity

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