Qui puoi ascoltare il podcast con il racconto con cui Marco Triches ci porta in Val di Piero

Il faut être absolument moderne.

Arthur Rimbaud, Adieu

Modernità delle sagre di Belluno

Se uno andasse a cercare il centro di gravità del Bellunese, lo troverebbe nelle sagre. Almeno in estate. Tendoni, chioschi, luci variopinte e alberi con i grilli. Le tappe del calendario, dal cuore in gola per l’emozione di fine maggio al gelido e buio inizio di settembre, nel fogliame, sono scandite dalle feste paesane. E in genere si va a tutte, pur avendone una per preferita

Le sagre spopolano, anche, e forse perché, non c’è il mare a darci un bel colpo di martello nella testa.  A cavarci tutte le smanie! 

Cucina tipica, torneo di calcio, coppa chiosco, musica disco, la messa, gli alpini, il liscio, la cover band. L’importante è tenere duro. Ricordo una volta in cima a un passo dolomitico un veneto del Sud incitare un suo socio in bicicletta: “Dài bèlo! Fa véde chi che sé omo!”

vendemmia in Valbelluna
Vendemmia di Clinton in Valbelluna
In apertura: Burel e Van del burel visti dalle Pale del Balcon

A Belluno non ci sono passi, al massimo squarci – suggerisco a tal proposito di raggiungere la cittadina attraverso il passo San Boldo, preferibilmente in bicicletta, non per gesto sportivo (vedi sopra) ma per esercizio estetico, e piacere della scoperta!

L’uomo, che si fa vedere esemplarmente nelle sagre di Belluno (ma probabilmente non è una tipicità), è padrone di sé stesso. Non esagera mai! Cioè, non fa nulla di sconveniente, mangia e beve fino a morire ma non lo dà a vedere, magari maltratta bambini e donne, bestemmia, fa gestacci, urla tra i tavoli. Ma dà sempre l’impressione di esser pieno padrone delle sue facoltà! È questo l’asso di denari della pista! La goliardia. Ma non far nulla di cui ti possa vergognare!

Non è un caso che uno dei reietti storici da una sagra paesana è stato Pier Paolo Pasolini: uno tra gli esempi d’uomo che non fanno al caso nostro!

Il 30 settembre 1949 Pasolini, alla festa di Ramuscello in Friuli, trascorre la serata con tre ragazzi. All’indomani uno di loro informa i carabinieri di qualche fatto accaduto quella notte. Il 22 ottobre Pasolini viene condannato per corruzione di minorenni e per atti osceni in luogo pubblico. Il 26 ottobre è espulso dal PCI pordenonese per indegnità morale (e borghesia).

I montanari sono spariti

Le sagre sono moderne e di conseguenza lo è il loro uomo specifico, che nella fattispecie ha il suo apice nell’impresario. Il montanaro non esiste praticamente più! Non tanto il singolo isolato: di pratiche e culture della montagna è certo che in ogni valle, conosciuta o meno, ci sia qualche rappresentante. Ma i montanari come società civile, opinione pubblica, gruppo, sono spariti. I vestiti tirati a lucido, i capelli all’indietro e la fronte ben scoperta, le biciclette e i fiaschi di vino nascosti tra i campi, le falci, la legna, la stalla. Tutta roba vecia, non al passo con i tempi, retrograda. Il montanaro di Belluno non è neanche detto che andasse in montagna. Prendo l’esempio di mio nonno: mai e poi mai si sarebbe legato a una corda per scalare, nemmeno quando era militare e gli ordinavano di farlo. Scampagnate si! Quando suo nonno era ubriaco, a dieci anni, se lo caricava in spalle e lo portava a casa dall’osteria, buttandolo di quando in quando sul paracarro per riposare, e augurandogli di morire. Oppure sua madre, che si attaccava il carro al collo e andava per circa venti chilometri come un somaro a caricare la ghiaia che sarebbe servita per costruire la casa. Ma quali alpeggi: pale ripide di prato e boschi intervallati da strapiombi, rovi e ortiche. Da mordersi la lingua tra i denti!

È normale che una fatica del genere uno la sopporta solo fintanto che la sopportano tutti, dopo basta. Dopo rimane soltanto il mito di un’arcana origine dei tempi, generalmente ridotta al Novecento – radici, tradizioni, culto della stirpe, chiusura, razzismo, leghismo – tutto questo pur non frequentando nessuno dei luoghi di quei tempi, e non facendo nessuna esperienza con il tempo di quei tempi.  Al massimo le sagre! 

la famiglia contadina Sommacal di Polentes, limana, Valbelluna
Una famiglia contadina della Valbelluna (famiglia Sommacal di Polentes, Limana)

Il Cordevole

Normalmente in Valbelluna se si pensa alle Dolomiti, si pensa ad Agordo, Cortina, Alleghe e Auronzo, cioè a 30, 40, 50, 60 chilometri di distanza, qualche catena di montagne più in là.

Il giorno in cui ho fatto leggere la prefazione del “Parco Nazionale delle Dolomiti” di Piero Rossi, datata capodanno 1976, a un mio amico fidato di Pesaro, lui ha sorriso, mi ha guardato come si guarda un ingenuo e ha chiuso il volume dicendo: «Ma che lingua parla? Sembrate nell’Ottocento lassù!»

Possibile? Davvero il testo non aveva sortito nessun effetto? Solo ironia? Non era un eroe? Sicuro il sottoscritto era (ed è) sotto l’effetto di una grande folgorazione per i monti di Belluno, ma non potevo aver preso una così sonora cantonata! Per me quel libro era un incendio! Trascrivo da Piero Rossi alcuni stralci, prima di proseguire:

“Questo libro vuol essere, anzitutto, un atto di amore alla nostra terra ed alla nostra gente. Ma non amore romantico o platonico, bensì amore cattivo e sanguigno, fatto di razionalità e passione. (…) Questa terra bellissima è stata sempre trascurata e depredata (…) È con profonda amarezza che noi assistiamo alla progressiva scomparsa di quel meraviglioso lavoratore specializzato, quell’impareggiabile artigiano, che era ed è ancora il montanaro. (…) Per noi, la battaglia per il Parco è una battaglia di cultura ed un contributo per salvare l’identità culturale, cioè l’anima, della nostra terra e della nostra gente, come necessaria premessa alla sua difesa, anche sul piano sociale ed economico.”

Il campanile di Belluno suona ormai lontano da qualche parte. La rugiada e la nebbia ci circondano mentre entriamo al buio nel canale del Cordevole. È qui che cominciano le Alpi di zona, che finiscono soltanto a Nord dell’Austria, una quinta dopo l’altra, una torre, un campanile. Lo stesso inddividuo si ripete identico, camicia a scacchi, jeans, espressione incarognita, in uno qualunque dei paesi prima e dopo della frontiera. 

Antonio Stoppani, Il Bel Paese, 1873:

“La valle che si andava sempre più restringendo, disegnava una lista di cielo, tesa sulle cime dei monti a modo di nerissima tela, a lembi fantasticamente frastagliati da rupi così acute che parevano le aguglie del Duomo, e così bianche da crederle illuminate dalla luna. L’oscurissima zona era un trapunto di lucidissime stelle (…) Solo per entro agli abissi delle Alpi Svizzere (la Via Mala) posso dire d’aver provato forse più viva che non in seno alla gola agordina, la sensazione potente di quella bellezza indefinibile, che non può esprimersi fuorché accozzando insieme due parole, in apparenza tanto ripugnanti tra loro: il bello orrido.

Val di Piero (Val de Piero)
La Val di Piero (Val de Piero)

La Val de Piero

C’è una valle laterale, una forra che sbuca tra le pareti bianchissime dei monti della gola del Cordevole. Ce ne sono innumerevoli, ma quasi subito, sulla strada che collega Belluno ad Agordo, si incontra questo freddo budello, che sbuca sul fondo valle con una cascata e la rada vegetazione abbarbicata alle strette e viscide rocce, un antro in genere dai 5 ai 10 gradi in meno di temperatura rispetto all’habitat che lo circonda. Il buco che ci raggiunge si chiama Val de Piero (Val di Piero). Ed è un altro esempio, questa volta naturale, di qualcosa che non ha nulla a che vedere col montanaro.

Non ci sono praticamente segni storici dell’uomo: nessuna attività di taglio del bosco, nessun pastore, ovviamente niente fienagione, cenge, canyoon e nicchie ecologiche lontane anni luce dall’intelletto umano. In poche parole non c’è il sole. 

A dire la verità, la valle sarebbe il punto di accesso per una serie di altre vallucole laterali. A quota 660 metri, in una piccola conca della foresta si incontrano i ruderi di un ricovero (Casonét de Val del Piero), testimonianza di un passato rurale. Ma siamo più vicini al primitivo. Tutto intorno ci circondano coste (Costa Bramosa, Costa Soracase, Costón del Laresé) , valli (Val de le Pale del Busnór, Val Destiràda, Val de le Traverse), colli, pulpiti e forzèle. Pervenuti soltanto intrichi di vegetazione, boschi sospesi (come il bosch Invidioso e il bosch de la Zesta – dalla forma a cesta rovesciata), cacciatori un tempo e qualche raro tizio ai tempi nostri. Porta luce alla valle una forcella che si chiama Odèrz, per dire; e siamo letteralmente all’ombra di una delle più alte pareti delle Dolomiti, (oltre il chilometro): il Burèl (quota 2281 metri), quello che in una nota di una vecchia edizione scolastica del racconto di Dino Buzzati, L’uccisione del drago (1942), viene definito come “luogo di immaginazione, non esiste nella realtà”!  

Quando ci sono entrato la prima volta non credevo ai miei occhi, come poteva essere che nessuno me ne avesse parlato prima di allora? Eppure faceva parte di diritto del nostro paesaggio. Anzi, forse ne era uno dei luoghi più tipici.

Con il tempo ho cominciato a menzionare la Val de Piero, i paraggi, alcuni scomparsi itinerari, vie che non dicevano niente a nessuno, a parte guai. Saltavano fuori come funghi degli amatori, generalmente bizzarri o matti, gente a metà tra il fantastico e il verace; ed io mi avvicinavo a quei maestri, perché di base non storcevano la bocca ai miei elenchi di toponimi dove volevo andare a cacciare il naso.

È in questo scorcio della Valbelluna, necessaria premessa, e della Val de Piero, porta principale d’ingresso, che il nostro viaggio prende una svolta importante: abbandoniamo momentaneamente il regno dei Monti del Sole, per entrate di corsa nel gruppo della Schiara. Nulla di che, soltanto il paese natale.

“A due nomi non posso non riservare un posto particolare. Il primo è quello di Giovanni Angelini, maestro, pur nella schiva grinta di orso del Zoldano. (…) L’altro, è quello di Franco Miotto, «l’uomo che fa il sesto grado con i capelli bianchi». Senza questa «force de la nature», che della Schiara conosce ogni appiglio, ogni filo di lóppa ed ogni camoscio e che del selvatico re delle nostre crode ha preso non poco, anche nel temperamento, questa guida non avrebbe mai potuto essere così ampia e completa. Mi sovvengono le parole di Kugy, a proposito della sua guida Andrej Komac: «Pensai molte volte che deve esser stata la Montagna a mandarmelo…»” – Piero Rossi, Natale 1981, prefazione a Schiara, Guida dei Monti d’Italia. 

22 Settembre 2020
Condividi
RUBRICA A CURA DI:
Marco Triches

Mi piace gironzolare, sono una guida ambientale escursionistica e scrivo. La mia terra natale è Belluno, una terra misteriosa, angusta e selvaggia. Per questo motivo, sogno di accompagnare le persone in quei posti.

 

Scheda partner