Roberto Serafin ci regala il racconto della sua esperienza al Kilimangiaro un quarto di secolo fa. Fu l’occasione anche per constatare quanto già allora gli effetti del cambiamento climatico stavano incidendo su quelle montagne dell’Africa. Il tempo non fu clemente con loro e le cose non andarono come sognate, ma nonostante questo Serafin ricorda con piacere quell’avventura e dimostra perplessità sull’ipotesi di una funivia che agevolerebbe il raggiungimento della vetta del Kilimangiaro.

Kilimanjaro Climbing via machame route Una salita al Kilimangiaro 25 anni fa: fascino, rinunce e la constatazione del cambiamento climatico

Partire per il Kilimangiaro: l’idea e l’allenamento

E poi arrivò in fretta e furia il Duemila e di anni chi scrive ne compì sessantuno. Non pochi. In questo 2025, mentre butto giù questi appunti, quegli anni mi sembrano pochissimi in confronto agli attuali ottantacinque portati con un repertorio non proprio inaspettato di acciacchi. A sessantun anni me la sentivo, in quel pacifico Duemila, di concedermi l’aria sottile delle alte quote. Un viaggetto in Tanzania per “testare” la mia resistenza sul Kilimangiaro? Come no? Questa prospettiva mi allettava. Ero sicuro che ce l’avrei fatta. Era solo una questione di allenamento e di quella testardaggine che non dovrebbe mancare quando il gioco vale la candela. 

E poi per convincermi a tentare il Kili, qualcuno (non ricordo chi) in quegli anni mi illuse dicendomi che i cinquemila di quota sul tetto dell’Africa equivalgono a un quattromila sulle Alpi. E io una certa dimestichezza con i quattromila l’avevo raggiunta. Dunque di che cosa preoccuparmi?

Mi preparai coscienziosamente sotto la guida di Graziano Bianchi, mia diletta guida alpina. Un uomo tenero che di burbero aveva solo l’apparenza. L’allenamento consisteva in ripetute salite sui montarozzi del Triangolo Lariano. Salivamo, vero Graziano?, con qualsiasi tempo. Poi la sera giù a perdifiato a Erba ad assaporare a casa tua i risottini serviti dalla tua Luisa.

Le ombre del cambiamento climatico sul Kilimangiaro 25 anni fa

Già a quel tempo correva voce che i ghiacci del Kili sarebbero spariti nel giro di un ventennio o poco più e che sulla montagna più alta dell’Africa non ci sarebbe stata alcuna traccia di ghiaccio a causa del riscaldamento globale. Questa prospettiva anziché scoraggiarci ci mise addosso più pepe del necessario. 

Di voglia di salire ne avevamo a bizzeffe, rassegnati alle annunciate anomalie climatiche che forse ci avrebbero reso dura la vita più del necessario. A lanciare l’allarme fu uno studio dell’Università americana di Columbus realizzato dal team di scienziati della Ohio State University guidati dal professor Lonnie Thompson. Ma perché tanto accanimento proprio con il Kili? Un po’ corrucciato ci è sembrato il ben noto vulcano appena scesi in Tanzania dall’aereo all’aeroporto “Kilimangiaro”. In effetti, la corona bianca che cingeva il cratere pareva meno consistente di come ci era apparsa sul web. Brutto segno? C’era una certa eccitazione nello sbarco dall’aereo e non ci facemmo caso.

I più informati dissero che i ghiacci del Kilimangiaro tra il 2006 e il 2007 si sarebbero ridotti del 26 per cento. Il global warming però, da quegli incoscienti che eravamo, non ci turbava più di tanto. Niente che potesse spegnere i nostri ardori fatto salvo l’infrequentabile alberghetto dove eravamo capitati. E dove cercavamo di assopirci nelle notti trascorse a rigirarci fra luride zanzariere. Venimmo a sapere che la scomparsa dei ghiacciai, un indicatore del cambiamento climatico in corso nella regione, avrebbe avuto un impatto non solo sui ghiacciai al vertice del Kili ma anche sugli schemi meteorologi che portano la pioggia sulle pendici del vulcano

Di pioggia ne venne giù parecchia durante la salita lungo la via Machame dove non c’è traccia di rifugi e per pernottare occorre accontentarsi di tirare su una tendina in mezzo alla fanghiglia. Per andare al bagno occorreva poi, sai che delizia, arrampicarsi su odorose strutture lignee invase da mosche e zanzare. 

Come si sa, con i suoi 5.896 metri, il Kili è il più grande vulcano spento del pianeta nonché una delle principali attrazioni turistiche dell’Africa tropicale orientale. Qualcuno del nostro gruppo messo insieme dall’operoso Daniele Tonani dell’agenzia Focus osservò che, dopo il Kilimangiaro, la stessa miserabile sorte sarebbe toccata al monte Kenya e poi alla catena del Rwenzori in Uganda. E poi chissà.

Milanesi sul Kili ph.Serafin Una salita al Kilimangiaro 25 anni fa: fascino, rinunce e la constatazione del cambiamento climatico
Tre alpinisti milanesi del Fior di Roccia in vetta al Kilimangiaro. (Ph. R. Serafin).
Purtroppo le foto della salita sono andate perdute tranne questa in bianco e nero della vetta tratta da Lo Scarpone.

Con il maltempo la salita si fa davvero complicata

Le piogge intanto non ci davano tregua. Con l’aggravante che nella salita verso l’ultimo campo, lasciate alle spalle le esotiche lobelie, dovemmo superare a quota quattromila un’interminabile parete inclinata su cui correva una traccia di sentiero piuttosto approssimativa. Quando stavamo ormai per farcela ci affacciammo su una larga vallata. E a quel punto la pioggia si trasformò in nevischio. Una nevicata in piena regola sommerse, dopo che le avevamo sistemate, le tende dell’ultimo campo che nel frattempo avevamo organizzato in un’indescrivibile confusione di aspiranti summiter come noi.

Mi si chiederà come è andata la salita verso il cratere del Kibo (il più alto dei tra coni vulcanici del Kilimangiaro). A costringermi a desistere, perché questo feci a malincuore, fu in realtà il mio piumino rosso inzuppato di pioggia che nel frattempo si era trasformato con l’abbassarsi delle temperatura in una corazza di ghiaccio. Fu questo particolare a farmi prendere la sofferta decisione. 

In quelle condizioni non avrei superato nottetempo quei seicento metri che ci separavano dalla vetta anche se mi rendevo conto che la mia rinuncia avrebbe dato un dispiacere a Graziano. Ma il dado era tratto e un po’ vergognandomi mi chiusi nella tendina nell’imperversare di un temporale con uno spettacolare susseguirsi di tuoni e lampi degno di un disegno animato di Walt Disney.

Qui si concluse il mio sogno di scalare il Kilimangiaro, consapevole che la Machame Route scelta per la salita, è indubbiamente una delle cento cose da fare prima di morire. Tutto sembrava facile, a portata di mano. Tutto meno quel tempaccio che ci ha afflitti.  Del resto, la Marangu Route viene soprannominata Coca Cola Route perché è la più breve e addomesticata delle vie che salgono al Kibo, con soste abbastanza confortevoli in ricoveri in legno.

Mi dicono che ad accogliere lassù i miei compagni milanesi c’era la bandiera della Tanzania sfilacciata dal vento e un grande tabellone ligneo con le parole “Congratulazioni, ora siete sul punto più alto dell’Africa”. i primi a salire ai 5895 metri dell’Uhuru Peak, il punto più elevato del cratere, furono per l’appunto i miei bravi compagni di merende. La mano del simpatico Marco Brenna si infilò a quel punto nella tasca della giacca a vento alla ricerca del timbro con l’intestazione del Fior di Roccia che giusto in quel 2000 compiva 75 anni. Tre lustri, non pochi, per il sodalizio al quale eravamo iscritti, nato nel ’25 a Milano al Caffè del Ponte a Porta Ticinese. Timbrare il libro di vetta era il compito che era stato affidato a Brenna di una trentina d’anni più giovane di me.

Ha più fascino una salita incompleta che una salita in funivia…

A questa cronaca del mio fallimento vorrei aggiungere una notizia che vent’anni dopo mi colpì sfavorevolmente. Nel 2020 in Tanzania è stata approvata l’installazione di una funivia fino a 3.700 metri di quota. Questo la renderebbe  la terza funivia più alta del mondo dopo la cabinovia Merida in Venezuela (4.765 m) e la funivia per l’Aiguille du Midi a Chamonix (3.842 m). 

Peccato che il progetto sia ancora di là da venire. Anzi, meglio così. Il percorso dell’ipotetica funivia dovrebbe iniziare, quando sarà e se sarà, vicino al punto d’ingresso del sentiero Machame, a quasi 2.000 metri, nel luogo in cui i portatori si organizzano pesando gli zaini e i relativi contenuti su rudimentali bilance attaccate ai rami degli alberi. 

Ora mi chiedo quale possa essere il fascino di una salita al Kili appesi al cavo di una funivia, senza quell’eterno ritornello delle guide africane, quel “pole pole” appena sussurrato che invita a  procedere “piano piano” per non sprecare preziose energie che verranno buone nell’ultimo balzo verso la vetta. Uno stratagemma indispensabile per arrivare lassù. Dove si può stare certi che la tranquilla (si fa per dire) passeggiata “pole pole” si trasformerà in una dannata “lotta con l’alpe”.

Roberto Serafin

14 Marzo 2025
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MountCity

MountCity è un progetto fondato nel 2013 a Milano che si poggia sulla passione e competenza di uno staff di cittadini appassionati di montagna, all’occorrenza con il sostegno di associazioni di volontariato. La piattaforma, grazie alla competenza e professionalità di Roberto Serafin che l’ha curata per 10 anni, è stata punto di riferimento sull’attualità della montagna e dell’outdoor con migliaia di articoli pubblicati. Ora lo spirito di MountCity vive ancora dentro questa rubrica.

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