Nella sua rassegna Serafin questa settimana ci presenta il nuovo romanzo di Alberto Paleari e il problema delle dighe che invecchiano e poggiano su versanti che diventano instabili con la fusione del permafrost. Infine una nota che prende spunto dall’intervista a Sofia Goggia di Aldo Cazzullo: spesso superficiali pregiudizi bloccano ancora il pensiero come ad un cancelletto di partenza che non si apre...
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L’affresco storico di Paleari
Da quando è diventato scrittore dopo essere stato a lungo guida alpina, Alberto Paleari non ha esitato a cimentarsi con vari generi letterari, dal noir al romanzo storico all’autobiografismo. Questa volta, con “Una breve estate” (MonteRosa edizioni, 271 pagine, 19,50 euro) l’amico Alberto attraversa diverse epoche e scenari offrendoci un affresco storico dell’Europa nei trent’anni che hanno sconvolto il Novecento. Sono in effetti anni tremendi quelli in cui si trova sballottato il protagonista Joseph, un ragazzo ebreo, dopo essere diventato alpinista tra i monti del Sempione. Dove il Dorf, il villaggio in cui trascorre le vacanze, gli offre non poche occasioni per la sua “formazione”.
Qui tra avventure alpinistiche con la guida Anthamatten e fragranti torte di mirtilli, tra un andirivieni e l’altro con Berlino dove nella famosa Unterderlinden risiedono i suoi genitori, Joseph incontra Gretchen che diverrà il grande amore della sua vita e con la quale, a guerra conclusa, convolerà a giuste nozze dopo avere combattuto a lungo contro nemici di vario genere, compreso se stesso.
Diviso in tre parti, ricco di colpi di scena, preciso nei dialoghi e nell’evocare personaggi e scenari alpini d’altri tempi, generoso di particolari nel raccontare la genesi di un amore, il romanzo rimanda ai giorni più cupi del nazismo, ma riesce anche a cullare il lettore con l’incanto delle estati sulle praterie e tra le gorgoglianti bisses del Sempione.
Dighe a rischio, risanarle è possibile
Con l’aumento delle temperature, il permafrost si scioglie e i versanti delle montagne diventano più instabili. Questo accresce il pericolo di frane nei laghi artificiali e quindi di onde anomale e devastanti, come avvenne alla diga del Vajont, in Italia, nel 1963, quando una parte del monte Toc finì nel lago provocando la catastrofe. Il grido di allarme viene lanciato dall’agenzia Swissinfo partendo dal presupposto che migliaia di grandi dighe nel mondo sono state costruite oltre mezzo secolo fa e hanno superato la loro durata di vita teorica. Ma le dighe sono per questo da considerare poco sicure? Il problema ha dimensioni mondiali. I grandi impianti nel mondo recensiti dalla Commissione internazionale delle grandi dighe (CIGD) sono circa 58.700. Si tratta di opere più alte di 15 metri o il cui invaso è superiore ai tre milioni di metri cubi.
La Cina è il Paese con il maggior numero di grandi sbarramenti, quasi 24.000. Ma intanto il risanamento della diga della Verzasca nel Canton Ticino, rassicura Swissinfo, dimostra che è possibile far fronte all’invecchiamento e alle conseguenze del cambiamento climatico. La diga è con i suoi 220 metri tra le più alte d’Europa. Venne inaugurata nel 1965 e dopo oltre mezzo secolo di attività sono stati necessari interventi di rinnovamento che ora stanno per concludersi. E nel modo migliore, secondo protocolli ineccepibili, a quanto spiega l’ingegnere civile Francesco Amberg, tra i tecnici che partecipano ai lavori.
Fermi al cancelletto… dei pregiudizi
Il tema è indubbiamente delicato. Nell’intervistare sul Corriere la campionessa Sofia Goggia, Aldo Cazzullo si è lasciato sfuggire una domanda che a mio avviso un giornalista di via Solferino (se ancora conta qualcosa questa “appartenenza”) avrebbe dovuto evitare. E rispondendo la Goggia ha dimostrato di essere ancora ferma al cancelletto di partenza dei pregiudizi. Cioè questa domanda: ci sono omosessuali tra gli atleti? “Tra le donne qualcuna si”, ha risposto la Goggia. “Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitzbuhel (una pista con l’85 % di pendenza, ndr)”. Va notato che chiunque oggi può provare l’intensità e l’emozione di questa discesa (e, a giudizio della Goggia, il proprio livello di mascolinità): il documentario “Streif – One Hell of a Ride” è infatti disponibile su iTunes.
Inammissibile il doppio pregiudizio. Il primo è quello che associa il coraggio al genere (qualcuno vuole negare che ci siano donne coraggiose o uomini pavidi?). Il secondo pregiudizio che ignorantemente ne consegue vuole gli omosessuali pavidi, magari anche molto sensibili e inadatti a imprese che richiedano coraggio e gli eterosessuali dei “maschioni senza paura”. Ma in che mondo vivono certi giornalisti? Cazzullo avrebbe potuto utilmente citare il caso, se ne fosse stato a conoscenza, dell’alpinista estremo francese Marc Batard che si dichiarò gay nell’autobiografia “La via di uscita” pubblicata a suo tempo da Priuli &Verlucca nella bella collana dei Licheni. Piccolo, agile, veloce, Batard venne denominato “lo sprinter dell’Everest”. E ancora oggi, arrivato alla settantina, non finisce di stupire per il coraggio manifestato in scalate estreme a quota ottomila.
Aggiungerei che la presentazione nel libro di Batard è stata curata dal filoso alpinista Gianni Vattimo con un titolo inequivocabile: “Ermeneutica di un alpinista gay”. “Marc Batard”, precisa Vattimo, “a un certo punto dell’autobiografia dice che la sua omosessualità è senz’altro una disposizione naturale e che non è stata determinata da un episodio di seduzione infantile e adolescenziale che gli è capitato di vivere tra gli undici e i quindici anni”.
Roberto Serafin
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