Vent’anni dopo la prima assoluta di Tenzing e Hilary, anche gli Italiani volevano la loro salita al tetto del mondo. È passato mezzo secolo da quel 1973: riviviamo, sfogliando un libro di memorie, l’impresa che coinvolse militari e illustri alpinisti italiani. Non senza lasciarsi dietro una scia di veleni.

Ascolta la puntata del podcast

Anche gli italiani volevano il loro Everest

Si trattò a quanto pare di una vera e propria “Everest frenesia”. Esplose nel 1973 ed erano già trascorsi vent’anni da quando il neozelandese Hillary e lo sherpa Tenzing raggiunsero per prima la vetta del tetto del mondo. A battezzarla così fu l’avvocato bergamasco Piero Nava che in quell’anno partecipò come vice capospedizione all’assalto italiano all’Everest orchestrato da Guido Monzino, facoltoso imprenditore milanese. 

Il mondo come si legge nei libri di storia in queglianni si era fatto piccolo e la reazione a catena delle spedizioni extraeuropee, una volta innescata, diventò inarrestabile.  

Oggi, mezzo secolo dopo, di quell’impresa che portò per la prima volta il tricolore a sventolare lassù a 8848 metri dopo la problematica risalita dell’Ice Fall restano tracce piuttosto labili. Senza con questo volere fare torto ai summiter dell’epoca. 

Ma almeno due alpinisti ci lasciano un ricordo indelebile di quelle giornate di gloria: il milanese Marco Polo che fu uno dei pilastri della scuola di alpinismo Parravicini del Cai Milano e Piero Nava, avvocato bergamasco passato a miglior vita, che ha consegnato ai posteri una suggestiva testimonianza di quell’esperienza. 

La versione di Nava: Everest 73

Si tratta nel caso di Nava del memoriale “Everest 73” pubblicato da Nordpress nel 2006 quando le acque, alpinisticamente parlando, sembrarono placarsi. È un libretto che vale la penna di rileggere per andare a fondo in quell’atmosfera da primedonne delle alte quote che aveva contraddistinto nel 1954 anche la conquista italiana del K2 lasciandosi dietro una inestinguibile scia di veleni.

L’avvocato Nava che chi scrive ebbe il piacere di conoscere quando a nome del Cai gli chiese di potere attingere al suo archivio per arricchire una mostra sull’alpinismo, di sassolini dallo scarpone se ne tolse al suo ritorno legittimamente parecchi incurante che il tempo avrebbe potuto lenire alcune ferite. 

Emerge in sostanza, e non solo al libro di Nava, che Monzino si mostrò assai poco disponibile al dialogo durante la spedizione da lui abbondantemente foraggiata come tante altre in precedenza. Insomma, tra le virtù del generoso Maonzino ne mancava a quanto pare una importante, il cosiddetto savoir faire. 

A quei tempi per salire sull’Everest occorreva coraggio, abilità fisica. E anche, perché no?, qualche santo in paradiso che potesse scucire somme da paperon dei paperoni. Ma ancora oggi, si sa, arrivare in vetta alla montagna più alta del mondo è uno sfizio che si paga caro. Il costo medio è di circa 66 mila dollari a persona, ma può salire a 200 mila per chi opta per un trattamento di riguardo. 

In compenso all’epoca erano sconosciuti i problemi dell’affollamento e dell’inquinamento e mai si sarebbe pensato che si potevano creare ingorghi di scalatori nella zona della morte, a ridosso della vetta.

Va comunque riconosciuto che le spedizioni di Monzino condotte senza lesinare tempo e denaro, erano caratterizzate da una meticolosa organizzazione; imprenditore tra i più famosi della grande distribuzione, quelle spedizioni Monzino era solito organizzarle di persona, studiandone nei minimi dettagli problemi di logistica ed equipaggiamento. 

Ma anche Nava alpinisticamente parlando aveva a sua volta la tempra di un capo e come tale mal digeriva certe direttive piovute dall’alto. Niente di nuovo sotto il sole. Anche Cassin si giocò il K2 per eccesso di autorevolezza che il capospedizione Ardito Desio non fu disposto ad accettare temendo perniciosi squilibri nella disciplina del suo squadrone. 

Monzino a sua volta non era quel che si dice un alpinista all’acqua di rose. Negli anni ’70 si svolsero due più importanti spedizioni da lui guidate. Partì il 2 aprile 1971 da Cape Columbia con slitte trainate da cani polari, raggiungendo il 19 maggio il Polo Nord dopo avere percorso la banchisa dal Mare Glaciale Artico. Chi meglio di lui avrebbe potuto guidare uno squadrone fino in vetta al tetto del mondo?

Everest 73 cover 2 Quella strana (o forse no) spedizione italiana all'Everest nel 1973

La spedizione del 1973

Nella primavera del 1973 ebbe dunque luogo la spedizione all’Everest con il patrocinio del Ministero della Difesa e del Club Alpino Italiano. Era dedicata anche al primo centenario della Sezione di Milano di cui Monzino era socio vitalizio. Il sodalizio che oggi nel compiere 150 anni  non può dimenticare questo importante capitolo. Indiscutibile al di là delle beghe che è impossibile ignorare fu il successo. Oltre a tre nepalesi ,ben cinque italiani raggiunsero la vetta della più alta montagna del mondo. Alla spedizione parteciparono i soci del CAI Milano Marco Polo e Vincenzo Mattioli. Per Polo quei primi anni Settanta furono cruciali per il percorso alpinistico e per le scelte di vita. La spedizione militare all’Everest – spiega – fu un misto di spirito di avventura e di irredentismo. Una miscela quasi esplosiva che spinse Monzino, instancabile organizzatore ed esploratore, a cercare l’appoggio delle massime istituzioni dello Stato per compiere un’impresa di grande impatto mediatico. 

Avendo acquistato direttamente dal governo nepalese le royalties per l’ascensione all’Everest, Monzino chiese e ottenne la partecipazione dell’esercito e si riservò il privilegio di poter scegliere personalmente i partecipanti. Quale socio del Cai Milano pensò di corroborare l’anniversario della Sezione, che già aveva in cantiere una spedizione all’Huascaran, coinvolgendo quattro iscritti alla spedizione. L’allora presidente Casati sondò il terreno e la scelta cadde sugli istruttori della Scuola Parravicini. Entratovi nel ‘69, Polo diventò ufficialmente istruttore nel ’72. In questa veste venne coinvolto assieme a Mattioli, Bellotti e Leccardi. Solo Mattioli e Polo, vigile urbano presso il Comune di Milano, vennero però ufficialmente “arruolati”: un ulteriore motivo per Monzino per far leva sull’orgoglio cittadino e sottrarre il giovane istruttore alla routine lavorativa.

Quasi tutti i corpi militari erano rappresentati nella spedizione, compresi gli incursori della Marina e l’Aeronautica militare che portò smontati, e poi rimontò all’aeroporto di Katmandu, tre elicotteri Agusta Bell; in quell’occasione uno dei tre stabilì il record mondiale di categoria atterrando a 6.500 metri di quota carico di materiale e con due piloti, impresa ancor oggi difficilissima da realizzare a causa della rarefazione dell’aria. Gli elicotteri portavano anche quotidianamente non solo la posta – che a Marco era preziosa perché in quei giorni era nato a Milano suo figlio Livio – ma anche l’insalata fresca da Katmandu.

L’idillio durò poco perché il clima militaresco non fu del tutto digeribile, soprattutto per l’intransigente Mattioli, uno dei tre della Parravicini. L’episodio scatenante fu una razione smodata di pepe che Minuzzo (uno dei prescelti per la vetta assieme a Carrell e Innamorati) decise di aggiungere al rancio serale. Mattioli sbottò e per questo assieme a Polo vennero allontanati temporaneamente dal campo base a Katmandu e messi alle strette. “Vogliate collaborare oppure via di qui”, intimò Monzino per telegrafo. 

Mattioli se ne partì e Polo accettò definitivamente le regole d’ingaggio. Promosso sul campo magazziniere, lavorò al campo base fino a quando non viene spedito a bruciapelo sulla Ice Fall. Fu una breve e traumatica esperienza per via di un inevitabile mal di quota. “E però l’Ice Fall te lo porti dentro” spiega, “così come la dimensione di quella spedizione dispotica e pure così istruttiva umanamente”.

Un’esperienza che tornò preziosa per i futuri anni di Parravicini e per i numerosi viaggi e le esplorazioni alpinistiche che segneranno anni di grande fermento; prima fra tutte quella al monte Api, condotta da Renato Moro, presidente della Parravicini dal ‘77 all’80. Marco gli succederà fino all’83 e cercherà di riportare nell’insegnamento le esperienze maturate nella spedizione all’Everest: la pazienza e una dimensione di ascolto maggiore.

“Una vittoria dimezzata”

In ogni modo il 5 maggio 1973 la spedizione italiana issò il tricolore sulla cima più alta del mondo. Nava, vice capo spedizione, nel suo diario la definisce una vittoria dimezzata. Forse nessuno meglio di lui, alpinista accademico e avvocato civilista, poteva rievocare quell’impresa in cui si susseguirono – sono parole sue – scorrettezze, egoismi, negativi colpi di scena, strascichi giudiziari. 

Il diario venne in realtà pubblicato trentatré anni dopo da Nord Press Edizioni. Curato da Massimiliano Magli, si tratta di un libretto di 111 pagine diviso in quattro parti: gli antefatti, i fatti giorno per giorno, i postfatti e gli allegati. Ciò che più colpisce è che non ci siano state scene di gioia e di entusiasmo all’annuncio che alle 12.30 del 5 maggio Carrel e Minuzzo erano giunti in vetta

Impresa riuscita, stop. Ordinaria amministrazione. “Non mi è mai capitato”, scrive Nava, “di restare così freddo e insensibile alla notizia della conquista di una cima e quindi del felice esito di un’impresa”. Perfino sette anni prima nella disastrata conquista del K2, gli italiani trovarono il modo di fare salti di gioia nell’ora fatale della conquista come si legge nel diario del volonteroso Pino Gallotti, altro socio del Cai Milano.

Non fece salti di gioia Nava che pure quella spedizione aveva visto nascere. Il clima viene definito da Nava di sovraeccitazione. Sospettò che fosse una messinscena. Ma Monzino, anzi GM come Nava gli si rivolge nel libro, non era tipo che amasse scherzare col fuoco. Il suo tono era amichevole, costruttivo. Lo era con tutti tranne che con il mite bergamasco Mario Curnis di cui Nava prese le difese facendo un gran dispetto a G.M. 

Venne meno l’accordo anche sulle bombole d’ossigeno la cui durata non fu chiara. Anche l’alimentazione a giudizio dei medici sembra che lasciasse a desiderare, ma guai se qualcuno avanzava riserve. E spratutto se GM lo veniva a sapere. Per non parlare delle tende “tremendamente scomode” secondo Nava. 

“Qui tutto costa fatica” commenta l’avvocato bergamasco, “compreso questo diario piuttosto amaro”. Finalmente arriva il 21 maggio, giorno in cui si levano le tende e si riparte per l’Italia. “Lascio Katmandu senza alcun rimpianto”, è il commento di Nava che, tornato a casa, ebbe modo di consolarsi con le prestigiose raccolte di antiche stampe di montagna. Autentiche rarità, erano la sua passione. A cominciare da quelle del Cervino, per lui una grande riserva di emozioni. 

Roberto Serafin

Leggi anche:

Fatti in breve: 150° CAI Milano – “Rifugi sani” – Clima che non fa notizia
12 Ottobre 2023
Condividi
RUBRICA A CURA DI:
MountCity

MountCity è un progetto fondato nel 2013 a Milano che si poggia sulla passione e competenza di uno staff di cittadini appassionati di montagna, all’occorrenza con il sostegno di associazioni di volontariato. La piattaforma, grazie alla competenza e professionalità di Roberto Serafin che l’ha curata per 10 anni, è stata punto di riferimento sull’attualità della montagna e dell’outdoor con migliaia di articoli pubblicati. Ora lo spirito di MountCity vive ancora dentro questa rubrica.

Scheda partner